XI.  La tradotta

Mi portavano nudo tirandomi
per un braccio legato stretto il polso.
Gelido il vento m’apriva la pelle
penetrava fino a toccare le ossa
mentre i piedi l’asfalto mi grattava.

Si perdevano gli occhi oltre le teste
dei miei aguzzini –
Trascinatemi!
Sbattetemi a terra e strascicatemi!
Non sapete? Camminare m’è dolce,
scioglie le paure e gli umori più tristi. –,
oltre, guardavano inebetiti
i limacciosi vapori d’una gola
svelatasi appena nell’intricato
fluire a valle di boriose colline.

Presto ne fummo completamente sommersi.
In quel denso vapore la meccanicità
dei gesti mi feriva togliendomi
anche il minimo di energia che mi restava.

Rivedevo istanti altre vite. Il gioco
segreto dei vicoli. Nuovi odori.
Il terrore di un Dio tristo e misero.
Il panico per le ombre rese più cupe
da un sole invadente che s’apre varchi
s’infila nei pensieri più intimi
del bosco, per violarli. La tensione,
gli slanci ad essere migliore di me.
Fino alla consapevolezza
di quanto come una seconda pelle
mi stessero addosso repressione e controllo.
Fino alla comprensione dell’essenza
reale del mio vivere e agire.

Smisi di tifare rivolta
e cominciai a praticarla.
Continuerei se non fossi così debole
fiaccato da una pratica sterile
e autocelebrativa nella quale
mi sono accomodato quasi a farmi male.
Sembra che io non abbia desiderato
che questo essere tradotto
in uno squallido pomerigio
cupo di pioggia verso il Cimitero.

Ora la resina dal naso pervadeva
ogni mia sensazione dilatando
tempi spazio e questo grigio costante.
Lo sbattere pesante degli anfibi
m’indusse una sonnolenza indolente.
 

Ero immerso in un vago dormiveglia
quando mi spinsero sul ciglio d’un burrone –
mi ero già abituato all’idea
d’un’esecuzione sommaria.
Percepii un rumore metallico,
come d’una carrucola. Alzai gl’occhi
e finalmente vidi il maledetto fungo.

 

XII IL CIMITERO

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