c'è un personaggio che s'è costruito un romanzo
una scena fatta strana di comode passioni e
una pala con tredici figure intorno come
fosse una storia che inevitabile dev'essere detta.

una macchina attraverso il centro muove
della scena, sola, scende l'avamposto,
meridiana larga: qui si scema e là s'evapora

cammina, impotente di tutto, con circospezione,
ponendo orecchio a particole dense dentro
l'ombra, come fosse un medicante di niente
deliziato da tanta pochezza donata a vuote mani

ineguale la materia – oleogramma
malinteso d'ovvie d'occasione ideologie –
sfigurata da alti sbuffi e comiche entropie

e siede, quasi stanco, per assorbire assetato
come spugna ogni piccolo impercettibile
movimento di corpi intelligenze sensi,
convinto che lì solo risieda quel che si dice vita

e improvvise vertigini di vapore
cataratte e di parole scrosci e tonfi
fiammeggare di fucili a cherosene e mastice

si ferma, appena attivo, nell'assurda convinzione
che il proprio moto sia sterile distrazione,
che l' io ex-sisto possa accadere soltanto
e posarsi sul fondo d'altre esperienze, non della propria

arzigogoli improbabili arabeschi
musicali, da velocità di lame
roboare di fenditure e attanaglianti cingoli

s'appoggia a un qualche stipite all'apparenza annoiato
e ne raccoglie dentro le mani concave
come padiglioni gl'infiniti racconti
di calda umanità celata al fondo di grigi fantasmi

abituati a maciullare convinzioni
passionali umani slanci universali
esaltate gioie per futuri mai possibili -

nebbia talmente spessa da obliare fino se stessa –
coperta dalla cenere di corpi ancora
deambulanti e già disfatti, zombie assuefatti
dal proprio incedere, autoalienati -

la macchina si solleva e scende tronfia
d'attrezzi appendici multiformi arti
disposti a travolgere esistenze con un niente -

a volte salta come per vedere da più in alto,
da diversa prospettiva, se le piccole
formiche affaccendate lì in basso davvero
siano premurosamente votate a una morte da schiavi

la scena divora inghiotte spalancando
in lauto sbadiglio lerci tumefatti
barbigli improbabili e quel che lì in mezzo càpita

o se ogni tanto non si fermino a considerare
quantomeno la possibilità d'offrire
a sé ‘na 'nticchia della propria esistenza,
per poi rincamminarsi, fessa la schiena sotto la soma

erti denti affilati maciullano
e dànno a vedere bava e bolo e mota
ritrita solite empie storie vituperi

si accuccia, non di rado, bofonchiando, ruminando
un qualche pensiero che non estrarrà infine
già mai dal tetro cilindro immaginifico
della propria calotta cranica – tanto non serve a niente …

e insulti a bellezza gioia comunione
e vomito d'orride escrescenze atti
inutili vacui buoni solo a perpetuare …

se poi s'imbatte in un buco atro si fionda dentro
a costruire vorticando un nido tiepido
col filo sottile di parole sconnesse
e da lì allunga gli occhi per vedere fuori chi passa,

l'abbietta ignavia l'insistente voglia
di vincere a ogni costo d'affermarsi
la sopraffazione come unica missione -

non per indole pettegola, che quella la schifa,
come la furbizia e l'arroganza e il potere,
ma per amore e bramosia di conoscenza
e comune sentire nella medesima condizione;

la macchina quindi si ritrae veloce
lasciando la scena a un dio seduto e stanco
che attonito osserva la poltiglia limacciosa

dorme a volte e quando sotto alte volte dorme
affrescate di in perenne metamorfosi
mostri cangianti da bestiale a femmineo
e umano e ferino - sembiante vivo d'arcana memoria –

allarga le braccia come a dire mo', io
che c'entro? e resta sconsolato china
la testa a oscillare qualche lamentoso mugugno

s'agita in preda a attacchi di panico e smanie d'ansia
oppure calmo sorride compiaciuto da tanta orrifica
bellezza o prende a sorridere e divertirsi
e gioca con quegli esseri strani usciti ormai via dal sogno -

fino a che inevitabile apre, in un unico spasmo,
il cuore sciabordante in un'enorme ampissima risata -

ma già mai piange dell'altrui pochezza,
ché è fonte di nutrimento e ricchezza
e florilegio d'indocile follia.

 

 

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XII - CONFLITTI