XIX.
Terzo sogno – La fuga
Mi
trovavo negli scantinati, di prima mattina.
Avevo il compito di pulire l’immensa sala delle caldaie e gli annessi uffici
di gestione e controllo.
Zozzi da far paura.
Comunque una cosa è certa, quando ti assegnano dei compiti si mette in moto una
scrupolosità imprevista.
Mi sono diviso il lavoro in giorni.
Il primo ho spazzato lavato e spolverato. Naturalmente non andava bene. Ho
ripetuto l’operazione in senso inverso, sbagliando anche questa volta; ho
lasciato perdere.
Il secondo giorno sono passato alla manutenzione delle componenti l’impianto
di riscaldamento delle acque. Ho lucidato messo a regime dato a ingranaggi
l’olio bastante cambiato pezzi andati a male; mi hanno incuriosito dei grandi
bulloni con incisa ciascuno una lettera che i sette boiler maggiori portavano
sulla pancia, senza riuscire a capirne l’utilità.
Ora stavo in uno degli uffici per ridefinire il programma generale di
funzionamento e coordinamento di tutte le parti dell’impianto.
Lavoravo al computer quando mi viene negato un accesso. Provo tutti i codici,
centinaia di parole chiave e migliaia senza senso. Inutilmente. Controllo tutti
gli altri computer: non davano altro che tediosissime partite di Tetris. Giro in
tondo nervosamente cercando di capire se ho commesso un errore, sperando in
qualche idea. Sullo scaffale d’una libreria, perso fra cartelle e manuali di
funzionamento e manutenzione, il primo volume d’un’opera immensa. Fu come
un’illuminazione. Scrivo la parola; si apre una finestra.
Fuori un’atmosfera rutilante di cubetti di ghiaccio sferzante.
“Attienti ben, ché per cotali scale,”
disse il maestro ansando com’uom lasso,
“conviensi dipartir da tanto male.”
Non aveva alcun senso tutto questo non c’era logica o sogno. Puro delirio.
Gli schermi di tutti gli altri computer s’osurarono; rimaneva acceso solo
quello di fronte al quale stavo seduto con un’espressione ebete. Stancamente
tutti i boiler si spensero.
Prepotente l’impianto d’illumunazione d’emergenza si mise in funzione.
Io mi sentivo completamente spampanato.
Voi forse non riuscite a capirmi ma è perché probabilmente non avete mai
vissuto una situazione del genere e una sensazione così profonda d’abulia, ma
talmente profonda da chiedersi ma quanto cazzo sono lungo se i miei piedi
spuntano dal lato opposto della terra mentre il sole si siede, che sono già le
sette e mezzo!
Rimasi immobile per non so quanto tempo – passarono delle ore – sulla sedia
mezz’appoggiato facendo finta ogni tanto di cercare con gli occhi un appiglio
che desse in me senso a una minima reazione. Non volevo trovare niente.
A un certo punto cominciò ad angustiarmi un vento potente che con suadenza
ritmica mi sbatteva le orecchie e faceva roteare la sedia dove ero profondamente
accomodato.
Mi vedo in quel momento; sbarrati gli occhi i capelli dritti in testa il cuore
sincopato.
Sentii a un punto passi assurdi d’un qualche strano animale che facevano il
verso a stoviglie sbattute violentemente a terra. Un attimo dopo un fiume
discreto di fango e massi rotolanti invase quasi con pudore i locali che avevo
così scrupolosamente pulito.
Alzando al cielo pesanti canti d’ingiurie e offese
da dietro un masso saltommi
addosso un nero lupo,
schiumando bava; con un cazzotto sui denti, stese
le gambe
in molle fanghiglia, quel bel sorriso sciupo
degli occhi faccio poltiglia e
cado, le mani illese,
con lui abbracciato; nel bronzo fuso l’umore cupo
di sé
mi disse: compresi appieno le sue parole,
la sua tenacia. Abbracciai una nuova
fraterna prole
di vive menti sensuali corpi e pura blasfemia.
Immersi in quella schifezza giallognola, il lupo mi spiegò che era stato
ibernato, obbligato in quello stato per una sua precedente colpa. Gli avevano
inserito nel cervello un micro-cip che avrebbe dovuto indirizzare tutti i suoi
pensieri all’assolvimento del suo imprescindibile dovere: se una qualsiasi
persona avesse arbitrariamente attivato il programma di autodistruzione,
automaticamente sarebbe uscito dal coatto e gelido letargo per uccidere
l’attentatore. Ma gli scienziati del Cimitero non avevano preso in
considerazione la capacità che hanno i sogni di rielaborare tutti i dati che il
cervello immagazzina; così durante lo stato letargico in cui era stato
costretto aveva riletto i dati del micro-cip in funzione antiautoritaria. Mi
aveva assalito perché se non lo avesse fatto il micro-cip avrebbe attivato una
spropositata produzione di adrenalina tale da farlo morire in pochi secondi;
sconfitto, automaticamente il micro-cip si era disattivato. E ora voleva fuggire
prima dello scadere delle trentanove ore – il tempo necessario al
completamento del lento processo di autodistruzione; restavano ventisei ore.
Doveva raggiungere la Porta della Nuova Alba
che si trovava da qualche parte nel Cimitero.
Decidemmo di trovare insieme il modo di fuggire da quel delirio di fortezza.
Le porte le aveva sigillate il fango. Gli ascensori erano tutti fuori uso.
Il lupo si diresse verso i boiler maggiori, svitò i grandi bulloni e li riavvitò
secondo un nuovo ordine; la nuova sequenza delle lettere dava la stessa parola
che avevo scritto sul computer, quella che aveva attivato l’autodistruzione.
Fra la N e la T si aprì, come fosse un piccolo ponte levatoio, un pannello che
celava un quadro elettrico intricatissimo di cavi e leve; in basso una piccola
porticina rotonda. Il lupo la aprì e mi disse di seguirlo. Mi misi carponi e
gli tenni dietro in uno stretto cunicolo dove strusciando con la schiena a
malapena riuscivo a passare. Mi mostrò in fondo al cunicolo una luce grigia e
opaca che si affacciava su delle scale; era una sola rampa d’una trentina di
gradini che portava in alto a una pesante porta in ghisa. La aprì. Ci avviammo
circospetti lungo il corridoio principale del Bureaudrome. Il lupo si avvicinò
a un ascensore, il tredici, schiacciò col naso il pulsante e lo aprì –
funzionava! Non avevo avuto nemmeno il tempo di gioire che alle nostre spalle un
branco a schiera di ripugnanti doberman, esaltati cloni dalle forme assurde, si
lanciò con un unico ringhio contro di noi. Il lupo mi spinse dentro con un
calcio nel culo e riuscì a chiudere le ante prima che facessimo la fine di
enormi croccantini.
Saliti al Primo Livello, l’ascensore si fermò autonomamente. Appena le ante
scorrevoli si aprirono sul corridoio interno, una luce abbagliante ci costrinse
a chiudere gli occhi e a voltarci per evitare il dolore. Richiudemmo le ante ma
quella stronza d’una cabina non voleva saperne di salire oltre. Da qui non si
passava.
Eravamo completamente sommersi dagli effetti di dubbi psicotropi; chiusi dentro
l’ascensore sprofondati in una depressione comica e languida senza convinzione
o speme di riuscita.
Come animato da umano fare il lupo fra fauci mostruose prese, da un taschino sul
petto, un sottile fuscello di vecchio legno – il suo stuzzicadenti personale
– e infilandolo nell’intercapedine fra lo specchio e la gomma aprì senza
sforzo apparente una nuova porta. Ci trovavamo su un predellino, sospesi nel
vuoto, molto distante dal pulsante di attivazione del ponte meccanico che dal
gambo, da sotto il pianerottolo della scala a chiocciola corrispondente al
Livello, si spinge fino agli ascensori. Il lupo mi fece salire in groppa e senza
pensarci si lasciò andare plastico nel vuoto fino al pianerottolo inferiore
delle scale.
Appena ripresi fiato cominciammo a salire. Superammo il Primo Livello e gli
chiesi di andare più piano; mi disse fumare non ti fa per un cazzo bene e
continuò col suo passo. Io salivo a stento; a metà fra il Primo e il Secondo
Livello decisi di continuare a salire facendo il cane, a quattro zampe. Arrivato
al Secondo Livello lo trovai accucciato sul ponte meccanico, fischiettava una
canzonetta per l’estate che era in voga qualche anno prima. La parte della
scala a chiocciola che da qui portava fino al Terzo Livello s’era andata a
fare un giro da qualche parte. Decidemmo di cercare il modo di raggiungere il
Cimitero all’interno del Secondo Livello. Ebbi modo di riposarmi – i tapis
roulant fortunatamente funzionavano.
Aperta la porta che dava al corridoio esterno ci venne sotto i piedi una palude
squamosa di merda e sputi. Cercando nelle sezioni di cono alla nostra sinistra
non riuscimmo a trovare niente che servisse al nostro scopo. Solo taglierini
mazze da baseball pistole mitragliette lamette da barba corde a cappio
iscrizioni sui muri di Madonna’nfocata
sonogiovaneediscretochiavmami!0333696969 Porcoddio e cassette di sicurezza
distributori di sigarette preservativi e caffè liofilizzato sportelli bancomat
e cambiavalute automatici.
Mi sciacquai le mani sperando di sussumere una parvente sensazione di pulito –
inutilmente. Erano le sale piastrellate, piene di specchi e scarichi, olezzanti
di piscio, bianche, dove ogni cosa assume una valenza onirica.
Tornammo indietro avendo deciso di procedere in senso antiorario. Qualche passo
e un roboante conato ci fermò. Dai cessi cominciò a uscire una melma grigia
mentre, proprio davanti ai nostri piedi, un bel pezzo del Livello si lanciò nel
vuoto, volontariamente, senza un grido. Una cascata continua di merda seguì
subito appresso il suo esempio.
Guardammo in basso nell’abisso profondo che languido ci chiamava a sé.
Una strana figura a metà fra l’Uomoragno l’Uomotigre e un Gargoils
s’arrampicava a mani nude su un pezzo di parete rimasto attaccato al Livello
grazie all’anima d’acciaio. Noi l’incitavamo, ma smettemmo quasi subito,
perché non appena fu a portata di naso … oh!, voi mi dovete credere! cioè,
lo so che sembrano cazzate ma quello che vi dico è successo veramente. Voi
potete pensare che magari ero sotto l’effetto di qualche sostanza, ma non è
così! Né la sistuazione allucinante può avermi traviato a tal punto da farmi
vivere cose irreali. Be’, insomma, quando stava più o meno a diciassette
metri da noi, ci angariò una puzza oscena. Immaginate un allevamento di
tredicimila maiali e tutti e tredicimila cacano nello stesso momento e per il
gran culo che il destino vi riserva vi trovate proprio mentre cacano tutti lì
nel centro dell’allevamento ch’è un unico immenso capannone con
all’interno solo tredicimila gabbie larghe quanto un maiale magro e
l’impianto d’ingrassamento dei porci senza alcuna parete divisoria a
sbarrare o separare l’aria. Immaginatelo! Ecce puzza! Salì quasi con slancio
in mezzo a noi. Non ci fu verso di convincerlo a lasciar perdere. Noi potevamo
continuare verso sinistra. No! lui si sentiva in dovere perché l’avevamo
incitato nella sua arrampicata. Disse scusate la puzza e aspettatemi qui! e
senza darci il tempo di obbiettare partì come una freccia. Quando ci girammo
– quanto ci vuole per girare la testa? niente! – lui non si vedeva già più.
Ritornò nel giro di mezzo minuto con una specie di deltaplano a motore munito
di un side-car a due posti; ci informò che era un ingegnere e che quel
trabiccolo l’aveva costruito nel laboratorio durante le ore d’ozio. Ci
depositò oltre il baratro e ci sconsigliò di salire al Cimitero – Andate
incontro a morte sicura! Io me n’evado da un’altra parte! –, quindi si
scusò di nuovo per la puzza – Mi sono cacato addosso … – e come uno
schizzo ritornò di là dal vuoto lasciandoci in regalo un po’ del suo
delicato profumo.
Ci avviammo; qui tutti i detenuti, lasciati a se stessi, si davano alla pazza
gioia: avevano scassinato gli armadietti degli ambulatori e avevano preso di
tutto. Molti s’erano lanciati in una danza orgiastica. Incontrammo
un’ammucchiata paurosa per il numero di persone coinvolte; stavano talmente
ammassati da compenetrarsi. Corpi con tre teste dieci braccia tredici natiche;
bocche spastiche succhiavano qualsiasi angolo
di carne trovassero a portata di lingua; alcuni persi completamente nel delirio
cominciarono a mangiare la carne viva senza fermarsi a considerare se fosse la
propria o di altri. Vidi un corpo dall’apparenza femminile che avanzava verso
un panzone zoppo da un piede munito di grandi occhiali dalla montatura bordò.
Il corpo in realtà erano due donne: una era in posizione vagamente eretta e
stava perdendo parte della calotta cranica fra i capelli stoppacciosi di puss e
sangue; dal suo stomaco partiva l’altra, completamente squarciata nel petto,
parallela al terreno; le gambe erano due ma doppie; quattro le braccia.
Afferrarono il viscido panzone avvinghiandoglisi addosso. La donna eretta
cominciò a succhiargli una guancia dopo aver mangiato gli occhiali, quindi
allargò completamente la bocca e inglobò nella sua la testa dell’uomo.
Quella parallela al terreno con un’unghia gli aprì lo sterno e lo penetrò
con metà dell’estensione del suo busto dopo avergli mangiato i testicoli e
averli masticati come chewing-gum e cominciò ad azzannargli le budella. Così
acchittati, disegnando una sorta di A sbilenca, cominciarono una strana danza
volendo ciascuno dei tre andare in una direzione diversa, fino a che questo
comico mostro non cadde per terra sfaldandosi in diversi pezzi schiumanti
sangue.
Proprio mentre facevamo un salto indietro per evitare gli schizzi di sangue, un
bestione in divisa tutto muscoli soffiò in un fischietto stridulo e acutissimo
venendo verso di noi e cominciò a urlare parole incomprensibili in un qualche
slang. Era un ex marines, uno di quei coglionotti americani coi capelli a
spazzola biondo-pagliericcio e dementi occhi azzurri che passano la vita a
gonfiarsi i muscoli e sono sempre pronti a mozzarsi la testa se qualcuno glielo
ordina perché il loro corpo non gli appartiene, è il corpo dei marines.
Mi acchiappò per la coda: stava girando dappertutto alla mia ricerca perché mi
ero allontanato dalla mia stanza senza permesso e non mi ero presentato
all’adunata dei detenuti del Terzo Livello che erano stati tutti portati al
Cimitero per l’applicazione collettiva delle condanne, ordinata
frettolosamente per quello stesso giorno dal Tribunale – lui non riusciva a
capire tutta quella fretta, si poteva fare con più comodo nell’arco della
settimana.
Gli risposi che non ero nella mia cella perché mi era stato assegnato il
compito di pulire l’immensa sala caldaie, e già quella era una condanna;
comunque ora stavo salendo al Cimitero proprio perché io sono una persona
coscienziosa e onesta e se mi è stata comminata una condanna è perché ho una
grave colpa da espiare, e voglio raggiungere il Cimitero prima che sia troppo
tardi: non voglio rischiare d’aspettare un altro giorno per pagare il mio
debito con la giustizia e tu puoi senz’altro aiutarmi, si vede che sei un
elemento essenziale nel gerarchico ingranaggio che governa e regola la vita qui
al Centro.
Si congratulò per la mia rettitudine e mi disse che poteva farmi arrivare fino
al Terzo Livello, ma il lupo no!, non era possibile portarlo con me.
Gli dissi ogni condannato a morte ha diritto a un ultimo desiderio; io volevo
morire assieme al mio lupo.
O.K.!, follow me!
Si mise a correre, quell’imbecille, e
noi dietro. Entrò in un’officina premette un pulsante e salì nella cabina di
comando di una gru il cui braccio meccanico ripiegato a fisarmonica cominciò a
muoversi distendendo la sua parte finale, mentre un’ampia parte del soffitto
scorrendo aprì un varco nell’aria. Guardando in alto sforzando lo sguardo
notai che anche il pavimento del Terzo Livello proprio sopra le nostre teste si
stava aprendo. Ci fece segno di salire sul carrello posto all’estremità del
braccio e azionò i comandi. Il braccio meccanico passando per l’apertura si
distese in tutta la sua lunghezza fino a raggiungere l’anello superiore.
Arrivati a destinazione la ricetrasmittente chiedeva per sincerarsi se fosse
andato tutto bene, risposi affermativamente e la ringraziai salutandola.
Il Terzo Livello era completamente vuoto; trovammo solo qualche cadavere
orrendamente mutilato. Passai nella mia stanza per prendere la mia sacca e
alcune mie cose, i quaderni il mio walkman delle cassette le foto le mie camicie
preferite. Presi anche il foglietto dove il mio compagno aveva scritto le sue
ultime parole la notte che s’era impiccato. Eccolo, ce l’ho ancora con me,
lo porto sempre con me da allora; leggetelo, sono solo tre versi, parlano di
pioggia e silenzi. E pensare che ancora pochi giorni e avrebbe avuto la
possibilità di scappare!
Comunque, andammo di corsa verso uno dei corridoi che portano fino al gambo;
questa volta corremmo anche sui tapis roulant. Gli ascensori naturalmente erano
fuori uso. Dal corridoio interno, chiamato il ponte meccanico, raggiungemmo la
scala a chiocciola e salimmo fino al fondo del cappello; trasmetteva un cielo
grigio e bituminoso: di là dalla vasta coltre di fumo e caliggini, una
smisurata squallida lampada, un gigantesco ovale tubo al neon. Sopra le nostre
teste una botola rettangolare – l’acciaio disegnava una grata; alla sua
destra un videocitofono. Suonai; Chi è? – Detenuto Y913; sono qui per
l’esecuzione. La botola s’aprì, stridula;
salimmo dentro. Ci venne incontro un omaccione enorme dalla faccia bonaria; la
bocca bardata d’un pizzetto colorato di giallo canarino, alta uniforme carica
di grappoli di medaglie e cartoline da tutto il mondo. Mi strinse la mano, Piacere,
Simone, – e accarezzò la testa al lupo che
ebbe come un moto di fastidio – voi volete morire assieme, vero? che
bravi! vi accontenterò.
Gli chiesi se sarebbe stato possibile visitare
il Cimitero; ci fece da cicerone. Dall’androne dove ci trovavamo ci guidò
verso destra lungo un corridoietto virtuale che s’apriva fra due altissime
teche trasparenti fatte di loculi che contenevano cervelli immersi in liquido
amniotico. I loculi erano separati l’uno dall’altro da uno spazio vuoto
dove, per ogni lato, una fiamma rossa guizzante e continua danzava su musica new
age. Erano i cervelli dei condannati alla pena capitale tenuti in uno stato di
perenne dormiveglia; attraverso un processo di sublimazione i loro sogni
venivano fatti evaporare, succhiati da aspiratori confluivano in immense celle
frigorifero che si trovavano al lato nord della cupola. Il ghiaccio qui
determinatosi veniva sciolto in un’enorme vasca ovale: l’indaco liquido che
ne scaturiva vorticava con una velocità impressionante e produceva l’energia
necessaria a tutto il Centro.
Ci portò nella zona ovest per mostrarci la penultima esecuzione che era appena
cominciata. Entrammo in una saletta dalle luci soffuse; la parete esterna
trasmetteva immagini di montagne riprese da un aereo radente. Il condannato era
steso su un grande letto dalle lenzuola nere di seta e gli era stata iniettata
una dose letale d’eroina. Ancora vivo, con un disco rotante, un distinto
signore in smoking con una parannanza bianca disegnò una croce nella calotta
cranica e la aprì come un fico, quindi prese dolcemente il cervello fra le
mani, mentre un suo pari recideva i vari cordoni ombellicali che lo legavano
ancora alla partoriente testa, e lo ripose in una scatola di cristallo colma di
ghiaccio su un morbido cuscino di piume.
Fra un quarto d’ora toccherà a te: mi
disse – voce nasale estremamente fastidiosa – Simone, vedrai non
sentirai niente, solo piacere; sarà una morte dolcissima.
Ci condusse ancora in giro. Arrivati nella zona
sud ci mostrò gli alloggi degli scienziati e dei generali che qui vivevano; ci
mostrò il garage, con piccoli aerei che servivano agli altolocati abitanti del
Cimitero, il ristorante, il nightclub. Ci fece entrare nel bordello: qui donne
uomini e bambini venivano vezzeggiati e coccolati per un anno intero; trascorso
l’anno venivano giustiziati e sostituiti da un eguale numero di bambini uomini
e donne (chiaro che qualcuno poteva morire prima del tempo – per cause
naturali, s’intende! – ma non era un problema, si provvedeva immediatamente
alla sostituzione scegliendo attraverso le telecamere fra i detenuti più
belli).
Ma era arrivato il mio tempo.
Ritornando verso il luogo dell’esecuzione passammo davanti alla zona est:
questo quarto del Cimitero, completamente chiuso da pareti trasparenti, era
completamente vuoto. Da qui si vedeva il cielo e in lontananza, oltre il mare,
montagne dalle pareti rocciose e bianche che vi si gettavano a picco. Sul
pavimento, un mosaico ripeteva il Giudizio Universale
di Michelangelo. Sulla parete esterna, un arco in pietra lavorata sulla cui
volta era inciso La Nuova Alba; dentro,
una porta in diamante lavorato a rilievo riproduceva un Cristo.
Il lupo lentamente ma in modo costante e ossessivo cominciò ululando a ripetere
Cantica
Le pareti della zona est si sgretolarono in un assordante infrangersi di vetri.
Simone si frappose fra noi e la porta, metamorfosandosi. Divenne un gigantesco
rotweiler dalla fronte sconnessa. Il lupo gli intimò di farsi da parte e non
impedire la nostra fuga se non voleva ritrovarsi con la carotide tranciata di
netto. L’altro cominciò a ringhiare e mentre ringhiava diventava più grande
e mentre si gonfiava parlava Sei tu il vile traditore che ha osato venir
meno al proprio dovere? e quell’altro? non è il distruttore della Nuova Alba?
Tornate alla vostra pena o vi maciullerò fra le zanne godendo a farvi morire
marcendo!
I due si fronteggiavano testa a testa
minacciandosi con gli occhi e i ringhi. Già li vedevo azzannarsi e farsi a
brani, quando mi venne prepotente in mente l’immagine d’una donna splendida.
Mi siedo sul mosaico di fronte alla porta; chiudo gli occhi per meglio vederla.
Poco a poco l’immagine si fa sempre più nitida. Apro gli occhi: dal diamante,
comincia a prendere forma la Donna che stavo sognando sostituendosi al Cristo
che lentamente scompare. Completata la metamorfosi si stacca dalla porta un
adamantino corpo nudo, perfetto nelle forme, sinuosissimo, che s’avvicina ai
due ringhianti contendenti e li accarazza sul capo, poi sulla schiena fino
all’attaccatura della coda. I due terribili animali si chetano e cominciano a
leccarle i fianchi.
La mirabile Forma prese a cantare con voce dolcissima New Dawn Fades.
Mi venne vicino e prendendomi le mani mi fece alzare: avviandosi col suo
ondeggiante incedere verso la porta mi portò dietro tenendomi per le mani.
Raggiunta la porta si girò a baciarmi: con un leggero fruscio la porta s’aprì.
Una leggera brezza ci sfiorava; mi abbracciò e si lanciò nel vuoto tenendomi
stretto.
Attraversammo un oceano illimitato e oscuro, libero da tempo e spazio;
abbarbicato al suo petto mi godevo il volo, superata la paura, le vertigini. La
donna impetuosa superava pendii e paludi boschi e radure, scegliendo vie
tortuose o dirette, facili o intricatissime e proseguiva dandosi spinte con la
testa le mani i piedi la schiena, e guada striscia nuota affonda balza corre e
vola finché non cominciò ad assalirmi le orecchie con estrema dolcezza un
selvaggio suono di canti blasfemi e gaudenti gemiti. Puntò nella direzione da
cui promanava la caotica eco e s’infilò nel fitto d’un bosco spezzando rami
e fronde. Si fermò su un albero squarciato che poggiato a terra per metà della
sua consistenza dava forma a un solido tavolo.
Stesi sul legno, il cielo livido si affacciava fra i rami che nascondevano il
sole, visibile solo a metà, cominciammo ad accarezzarci per ore e giorni e
notti. Non provai mai sete né fame, solo un leggero fastidio e dolore per i
graffi che mi avviluppavano completamente.
La sua voce i suoi gemiti mi sbattevano
lo stomaco in gola, la pelle trasparente
un frutto dolcissimo, nettare divino
i suoi umori, la sua carne sembrava acqua,
profumava d’erba tagliata e funghi e terra,
la mie mani il mio corpo volto bocca gambe
affondavano rimanendone stupiti
in quella carne morbida e accogliente
come un soffice letto, e madido.
Svegliatomi un’alba, la sublime apparenza era svanita.
Mi avviai, spossato nella carne; non un goccio di saliva; il mio stomaco era un
enorme buco nero che stava inghiottendo ogni mia forza, ogni pensiero.