VI.  Primo sogno – La casa

Camminava semplicemente senza considerare se i suoi passi avrebbero potuto un ritmo o una strada. Andava. Nel selciato di pietre dure sembrava ritrovarsi: un percorso, una strada. Sapere perché il vicolo a sinistra era più bello di quello a destra non contava un cazzo. Era semplicemente più bello. Sapeva che appena finiti i gradini si sarebbe trovato di fronte a quella mezza scalinata che dava sul terrazzo; sarebbe salito fermandosi a guardare i gerani sul balcone che gli si opponeva. A ogni passo, ogni volta che il suo piede destro – senza una carezza – si poggiava sul gradino successivo, seguito dopo brevi istanti dal suo reietto cugino, alzava gli occhi a considerare tutte le pietre che determinavano quella piccola intimità all’interno d’un vicolo. Semplicemente c’erano e non affermavano altro che la propria esistenza. Muschio e erba ne ornavano la sapienza. L’ombra era il corredo necessario a che la festa potesse dire danza.
Sapeva dove andava e perché. Non era obbligato, né si sentiva in dovere. Desiderava bussare, sentirsi dire, magari con un tono violento, o veemente se c’è differenza, che vuoi? ed entrare con la testa bassa a chiedere scusa per quella intromissione, dimenticando d’essere una specie di tiranno o qualcosa di molto simile all’orco che gli agitava le notti bambino.
Salendo verso la porta si rese conto per la prima volta che quei gradini il muschio l’atmosfera d’intima malinconia, tutto, aveva già vissuto. Restò allibito nel considerare un desiderio atavico. Salì fino alla porta stette un attimo si girò poggiò i gomiti sul freddo della ringhiera il mento su un palmo e rivide un istante.
Era immerso fino al collo nell’acqua tiepida.
Due donne gli nuotavano ai fianchi sfiorandolo appena. Sussurravano canti dall’apparenza liturgica carezzandogli il collo con un morbido aroma d’aglio. Cominciarono a girargli intorno chiudendo sempre più i cerchi fino a che all’unisono – forse le aveva decise un cenno – si fermarono statuarie immobilizzandolo senza toccarlo.
Fisicamente libero si sentiva incapace di un gesto significativo. La sua ombra occupava quasi integralmente lo spazio dove esisteva il suo corpo.
Ai suoi fianchi mani ripeterono ridondanti lo stesso percorso per un paio d’ore. Diafane sfioravano la pelle. Piccoli peni aguzzi si rizzavano a quel labile contatto: sui glutei sulla pancia sulla dorsale sui fianchi fino all’ascelle. Le gambe sfioravano le gambe. I peli s’intricavano senza dirsi parole. Viveva un’estasi incompiuta, vuota. L’acqua era gelida. Chiuse gli occhi come per concentrarsi; non servì.
Dall’altro lato della vasca poggiata coi gomiti sul marmo una divinità fatta di carne e sangue lo guardava fra i sopraccigli pretendendo carezze.
Le sue mani cominciarono ad agitarsi frenetiche, bloccate.
Di fronte aveva la donna.
Ai fianchi aveva donne che lo tormentavano con carezze appena abbozzate.
Parvenza di calore.
Il suo pene si tendeva in slanci senza possibilità d’espressione; era come atrofizzato da tanta insistenza.
Dal lato opposto un clitoride si ergeva come l’unico altare dove sacrificare ogni gesto voluto, qualsiasi attimo vivo, dove un suicidio può avere senso.
Provò a divincolarsi da quella eterea morsa; spinse con le gambe, agitò le braccia. Riusciva a muoversi solo dentro. Annaspava nell’acqua per riuscire a trovare una distanza che annientasse il desiderio ma gli occhi fissi  viveva solo quella carne madida e pulsante rossa che si sporgeva fino a raggiungerlo fino a sfiorare la sua bocca fino a sfiorarla e subito l’abbandonava.
Poco a poco quelle mani cominciarono a conficcarglisi nella carne viva e trasparente. La pelle come una gelatina si era aperta e richiusa sulle dita, solleticando i palmi si era avviluppata sui dorsi, graffiando; un morso stringeva i polsi. Si attanagliarono con una forza straziante; come un innesto erano penetrate e giocavano con le fibre i nervi le vene torcendoli in una vertigine mistica.
La donna di fronte stesa sul marmo della vasca cominciò una danza solitaria tendendo con forza le gambe a ogni spasmo. Gemiti inauditi sfioravano il pelo dell’acqua si spandevano fino a lui gli sfioravano l’inguine per dileguarsi senza aver dato vita a un minimo contatto.
L’unico godimento che alla fine riuscì a provare furono le lacrime che come dal becco spaccato d’una cuccuma bollenti gl’inondarono il viso.
Si alzò dai gomiti si girò verso l’uscio e bussò passandosi una mano fra i capelli.

 

cantica

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