CARMINE DONATELLI CROCCO

COME DIVENNI BRIGANTE

 


CAPITOLO VI – ATTACCHI ISOLATI

Ritorno alla macchia di Toppacivita, campo di mia vittoria. Ma oh caso strano, essa era sparita! non restava che la terra smossa.
Il generale Della Chiesa con tre battaglioni di bersaglieri e con artiglieria e cavalleria era giunto in Rionero. Alla macchia di Toppacivita, durante la mia assenza, s'era annidiata una banda di ottanta briganti capitanata da un certo Pio Masiello; costui aveva mantenuta la posizione ed il terrore nel distretto stante la deficienza di soldati. Il generale colla sua forza attaccò la posizione iniziando il tiro colle artiglierie; allo scoppio delle granate i briganti se la dettero a gambe, chi non fu ucciso, cadde poi prigioniero e la banda fu distrutta. Il generale avendo riconosciuto che quella posizione nelle mani dei briganti arditi e numerosi, era un forte pericolo per Rionero e paesi vicini, ne decretò la distruzione. Con pubblico bando diè libertà ai contadini di recarsi liberamente a far legna in quella macchia e così in men che non si dica la boscaglia del signor Filippo Decillo di San Fele divenne un bel campo raso.
Bisognava cercare altro quartiere che non fosse quello di Toppacivita.
L'inverno s'avanzava a gran passi, noi eravamo in tutti 2180 uomini e 340 cavalli. Ci dividemmo in sei frazioni principali, e costituii un'altra ventina di piccole bande dai 12 ai 20 uomini; questi avevano ognuno il proprio capo, potevano bivaccare a loro bell'agio, lavorare per conto proprio per buscarsi il pane ed in caso d'inseguimento dovevano rientrare alla banda principale dalla quale erano usciti.
Io presi quartiere nei boschi di Castiglione, Sassano, Pesco di Razza e Pietra Palumba, questa vasta estensione di boschi erano proprietà del Comune di Calitri, Carbonara, Aquilonia e di Monteverde, tutti paesi senza truppa, presidiati dalla debolissirna guardia nazionale.
La 2a banda prese posto sulla destra del fiume Ofanto nell'interno del bosco di Monticchio, sotto la dipendenza della città di Melfi ove vi erano tre compagnie di guardia nazionale, bastanti appena al servizio della città e delle carceri. La 3a banda prese quartiere nel bosco di Monticchio ma non sopra il fiume su indicato bensì sopra la fiumana di, Atella, ed aveva questo paese, senza forza, a due miglia. La 4a banda occupò il bosco di Boceto, la 5a quello di S. Cataldo e la 6a la boscaglia di Lagopesole.
Tutte queste bande erano, così ben scaglionate che in poche ore si potevano riunire; in pochi giorni costruirono ciascuna capanne, blinde, stalle, baracche, cucine da mietitori e requisirono caldaie, barili, secchie. Per vivere, requisizione forzata di buoi, capre, pecore, visita alle cantine delle masserie limitrofe per provvedere il vino e per acqua quella dei pozzi e l'altra che ci veniva dal cielo; chi pagava era il..... piombo.
Eravamo in dicembre e cominciammo a scannare i maiali, fin allora assai grassi per aver pascolato nei boschi ove abbondava la ghianda. Il quartiere generale era il mio, 480 persone, 40 cavalli ed oltre 100 cani d'ogni razza grossi e quasi feroci.
Dai primi di dicembre 1861 al 5 maggio 1862 non vi fu cosa che meriti di essere riferita, giacchè non fummo affatto molestati. Città e paesetti per ordine del governo fecero il cosiddetto stato d'assedio, proibendo al popolo di sortir fuori sotto pena di morte a chi disubbidiva. Così passammo l'inverno senza essere disturbati e fu veramente una fortuna, poichè quell'anno vi fu un'invernata terribile, che non si ricordava l'eguale. Era caduta tanta neve che non si poteva camminare; ciò fece dire ai giornali che il brigantaggio era distrutto e morto di fame, mentre noi briganti eravamo sani e forti come tanti tori, senza le corna però.
Col finire dell'inverno dovendo le terre essere lavorate, fu giocoforza permettere ai contadini il ritorno ai loro campi; ma ordini severissimi proibivano a chiunque di portare pane e viveri più del necessario al proprio sostentamento. Si credeva con ciò farci arrendere per fame e non si sapeva, o meglio si fingeva non sapere, che i signori per avere da noi meno male, avevano posto a nostra disposizione le ricche masserie colla condizione «mangiate, bevete ma non distruggete».
Se qualcheduno si mostrò restio nel venirci in aiuto, pagò a caro prezzo quel suo rifiuto e vi vide distrutti interi campi di grano, e armenti di pecore. Col ritorno dei contadini la campagna riprese il suo aspetto normale, noi ritornammo, come pel passato a ricevere confidenze ed informazioni. Non mancarono tra tanti contadini, le spie dei governo ma queste portavano scritto in fronte la parola infame. Ce ne capitarono parecchie tra i piedi, ed ebbero la mercede dovuta alla loro professione.....un solo colpo ben mirato.....
Sul finire di marzo 1862 il distretto di S. Angelo dei Lombardi e quello di Melfi fecero d'accordo unione delle forze per darci la caccia. Avvertiti dai confidenti ci preparammo a difesa occupando il più fitto dei boschi. Fummo attaccati in vivo fuoco dalle truppe e dalle guardie nazionali senza risultati, poichè favoriti dalla conoscenza dei luoghi, sfuggimmo agli assalti pericolosi, vendicandoci nelle pattuglie isolate smarritesi per mille sentieri di quelle folte ed immense boscaglie.
La caccia ai briganti, specie nel Melfese, fu dapprima fiacca e debole, causa la deficienza di truppe regolari, e ciò fu incitamento al moltiplicarsi dell'orda brigantesca.
Piccole vittorie nostre negli scontri contro le truppe, il grande appoggio, materiale e morale ricevuto dai reazionari e dal clero, ci entusiasmarono facilmente, onde spesse volte ebbri di sangue e di ferocia, dopo inaudite barbarie, ci credemmo sul serio padroni dei luoghi e del momento.
Quando però l'impero della legge cominciò a prevalere nelle campagne e nei paesi, e le popolazioni compresero la necessità di accettare le leggi del nuovo governo, e ne toccarono con mano i benefici, allora la lotta contro di noi si fece viva, insistente e più tardi accanita. Sfruttati i paesi posti alle falde del Vulture, resa insidiata e mal sicura la nostra presenza a Monticchio e boscaglie limitrofe, nel maggio 1862, organizzati in piccole bande lasciammo le nostre residenze abituali.
Divisi in diverse bande noi avevamo del pari divise le zone nel limite delle quali le bande stesse dovevano operare senza che una intralciasse l'opera dell'altra. Talvolta si fissava qual punto di riunione un paese di lontana provincia di Bari, Campobasso, Lecce, Foggia, Avellino e che so io, e le masnade tagliaggiando, aggredendo, imponendo taglie e ricatti percorrevano diverso itinerario, riunendosi in giorno determinato nel luogo prestabilito, per compiere tutti uniti un ideato progetto.
Però coll'aumentare delle forze regolari e coll'ordinarsi delle guardie nazionali, si dovette limitare l'azione nostra restringendola a più modeste proporzioni; non più attacchi di paesi fatti a viva forza, non più larghi avvolgimenti di centri importanti utilizzando numeroso stuolo di cavalieri, ma aggressioni di viandanti, assalti di corriere postali, occupazione di piccolissimi villaggi, di masserie isolate, deludendo con astuzia e con rapide fughe gli scontri colle truppe, salvo a provocarli quando l'enorme disparità delle forze ci faceva sicuri d'una facile vittoria.
Attacchi parziali n'ebbi a centinaia, non mi ricordo le date ed i luoghi con precisione, poichè in quei giorni non prendevo appunti, nè mai potevo supporre che dopo 40 anni, dall'oscura carcere ove sconto la pena dei lavori forzati in perpetuo, avrei un giorno scritta l'istoria della mia vita brigantesca.
Espongo, perciò, senz'ordine cronologico, quanto mi si affaccia alla memoria lasciando da parte il futile ed il superfluo. Mi ero unito a Caruso al bosco della Grotta non molto lontano dal paese di Serracapriola, quando fummo sorpresi al bivacco da un battaglione del 36° fanteria ed a stento dopo aspro combattere potemmo salvarci nell'interno della boscaglia, lasciando morti parecchi dei nostri e quel che più monta le nostre mule cariche delle fatte requisizioni.
Mentre mi ritiravo per l'alto Molise ebbi notizia che un distaccamento di cavalleggeri Lucca occupava una masseria isolata; per vendicare lo scacco avuto ed il perduto bottino decisi circondare di nottetempo la masseria e coi cavalli della truppa supplire le mule lasciate al bosco la Croce.
Disposto all'ingiro i miei gregari ordino di circuire la masseria col mandato di attaccare all'alba. Ed all'apparire del giorno non appena escono i primi soldati per attendere alla pulizia personale partono dai miei i primi colpi, indizio dell'attacco. Sicuro della sorpresa comando di restringere l'accerchiamento, ma trovo una difesa inaspettata; dalle numerose finestre quei prodi ci scaricano addosso le loro carabine e rispondono con dileggio alle mie intimazioni di resa.
Per risparmiare i miei, dopo un fuoco di fucileria, durato per molto tempo, ordino di incendiare la masseria utilizzando l'abbondante paglia ivi ammucchiata e le numerose fascine di rami d'ulivo. Ma il fuoco, il fumo asfissiante non spaventano quei pochi soldati che continuano a sparare contro di noi, mentre la tromba dall'alto della specola, suona incessantemente la carica. Il frastruono dei colpi, i segnali di tromba, il fumo, le fiamme danno l'allarme, qualche spia è corsa al paese di Rotello ad avvertire la truppa, e, quando già stavamo per cogliere il frutto delle nostre fatiche, siamo assaliti al grido di «Savoia» da una compagnia del 61° fanteria e costretti alla fuga per avere salva la vita lasciando sul posto diversi morti ed una decina tra feriti e prigionieri.
Un giorno, verso la metà dell'ottobre 1861, a capo della mia banda sostenni un fiero combattimento nei pressi della masseria Gaudiano in territorio di Lavello, contro il 3° squadrone dei lancieri Milano, due compagnie del 62° fanteria ed una compagnia di guardia mobile. Eravamo a bivacco nel bosco in attesa dell'alba per tentare un'aggressione contro la corriera postale, che portava all'esattoria provinciale una grossa somma di denaro. Si sapeva che la corriera doveva essere scortata da un buon nerbo di cavalleria, ma l'ingordizia del ricco bottino ci aveva resi baldanzosi e temerari da non misurare il pericolo di cozzare contro numerosa forza armata. Avevo ai miei ordini oltre centocinquanta gregari, dei quali più della metà erano a cavallo; la conoscenza profonda e particolare della località, le informazioni precise delle nostre spie, facilitavano il compito nostro. L'assalto alla corriera fu rapido e risoluto, ma di un tratto ci trovammo circondati da uno squadrone di cavalleria, mentre sbucavano dai campi attigui la fanteria e la milizia mobile colle baionette in canna a passo di corsa.
Alla vista di tanta forza, ordinai di prendere posizione sull'alto del ciglio della strada, al sicuro della cavalleria, e con un nutrito fuoco in ritirata poi, internarmi nel più fitto del bosco. Quell'attacco fu per noi un disastro, poichè lasciammo sul terreno oltre quaranta persone tra morti e feriti. Caddero pure prigionieri otto o dieci dei nostri, che vennero immediatamente passati per le armi, e tra questi la moglie del mio amico Teschetta, che seguiva la banda vestita da uomo.
Ricordo la triste fine del mio fido compagno il fratello di Volonino, ucciso da un prode bersagliere dell'11° battaglione. Ero di ritorno da un'esplorazione eseguita verso il paese di Candela, quando mi venne segnalato l'approssimarsi di un distaccamento di bersaglieri rinforzato da un plotone di ussari. Ordinai la ritirata e di galoppo guadagnai la sponda opposta dell'Ofanto, internandomi tosto nel fitto del bosco. Una pattuglia fiancheggiante, comandata dal Volonino, sorpresa all'improvviso non ebbe tempo di salvarsi utilizzando il guado da noi conosciuto, e per non cadere nelle mani della truppa affrontò la corrente in un punto pericoloso. A tal vista gli ussari che inseguivano si arrestarono sparando addosso ai miei le loro pistole; disgraziatamente il cavallo del Volonino guadagnata la corrente avvicinandosi alla sponda cominciò ad affondare nel fango. Ratto come uno scoiattolo un bersagliere si spogliò nudo e col fucile impugnato affrontò, malgrado il rigore dei freddo, le acque dell'infido fiume, raggiunse il brigante, lo uccise con un tremendo colpo di baionetta al petto, e ritornò all'opposta riva trascinando cavallo e cavaliere.
Ho percorso colla mia banda le deliziose pianure di Foggia, la terra di Bari, la marina di Basilicata, mi sono spinto fin sotto a Lecce, a Ginosa, Castellaneta, compiendo ovunque depredazioni e ricatti, talvolta sfuggendo le truppe, tal'altra attaccando all'improvviso, spesso coll'agguato e coll'insidia. Ferito quattro volte, ho visto cadere ad uno ad uno i miei più fidi, ebbi dolorosi abbandoni da compagni già carissimi, che preferirono la vita sicura dell'ergastolo che la morte sul campo o la fucilazione alla schiena e da ultimo fui tradito da quel Caino fratricida di Giuseppe Caruso, ma, non accelleriamo gli avvenimenti, parlerò di ciò a tempo opportuno.
Nel giugno o nel luglio del 1862 una parte della mia banda, oltre 100 cavalieri agli ordini di Donato Tortora, aveva avuto incarico di aggredire la corriera postale che da S. Fele per Atella conduceva a Rionero. Informazioni segrete ci avevano fatto conoscere come in quel giorno viaggiasse un impiegato dell'ufficio dei registro di Melfi con una considerevole somma di denaro, frutto di esazioni fatte in diversi paesi. Sapevamo che normalmente quella corriera era scortata da pochi uomini di fanteria, ma nella supposizione che in quel giorno sarebbe stata aumentata la scorta, volli che Tortora movesse all'impresa con buon nerbo di miei per non tornarsene colle pive nel sacco.
Appostati lungo il letto del torrente Levata, al coperto dalle ripidissime sponde, stavano i miei pronti a sbucare fuori sulla strada, nei pressi di Ponte Vecchio, non appena la corriera fosse ivi segnalata, sicuri di mettere in fuga quel caporale e pochi soldati che servivano di scorta alla carrozza. Ed infatti non appena giunse la corriera al punto indicato i miei uccidono con un colpo di fucile il vetturale ed accerchiata la carrozza si danno attorno per raccogliere il denaro che si sapeva ivi depositato.
Camminava la scorta alquanto distante ed era in quel giorno costituita da una quarantina di soldati dei 62à fanteria comandati da un sergente. Il colpo di fucile, che dall'alto dell'imperiale aveva fatto ruzzolare a terra il vetturino ferito mortalmente alla faccia, destò l'allarme nel piccolo distaccamento, che di corsa colle baionette in canna si slanciò all'assalto. Accolto a fucilate dai miei, il distaccamento si arrestò e rispose coi fuoco, poscia accortosi che si cercava di avvolgerlo, il sergente ordinò di abbandonare la strada e si recò in posizione su d'una piccola altura presso la rotabile nella regione Gaudo, di dove cominciò a tempestarci con un vivissimo fuoco.
Durò per più ore la lotta ed ogni qualvolta i miei in numero compatto cercavano caricare quel nucleo di valorosi erano accolti al grido di «Savoia» e caricati a loro volta colle baionette. Dopo due ore, Tortora non essendo riuscito a mettere in fuga la truppa, nel timore di rinforzi che potevano giungere dalla vicina Rionero, volse le spalle e rientrò al bivacco avendo lasciato sul luogo dello scontro una ventina di briganti tra morti e feriti gravemente.
Sul finire dei 1862 unicamente alla banda di Caruso nel bosco la Grotta nel Molise sostenni l'attacco di una compagnia del 36° fanteria rinforzata da 100 uomini di guardia nazionale. Informati dell'avanzarsi della colonna, con simulata fuga di pochi dei nostri, attirammo la truppa in un terreno fangoso e disagevole dove a stento si riusciva a camminare. Quando la compagnia si fu internata in quella specie di pantano noi, sbucammo all'improvviso divisi in squadre e di galoppo ci gettammo sui soldati che risposero al nostro fuoco sparando contro di noi circondati e massacrati, senza che se ne salvasse uno solo. Il tenente, preso vivo, fu legato ad un albero e passato per le armi; il capitano, che seppi di poi chiamarsi Rota, ferito al braccio da un colpo di fucile, ebbe il coraggio di spararsi alla tempia un colpo di rivoltella.
Padroni del campo spogliammo e depredammo i cadaveri, i più tristi, sollecitati dal Caruso, compirono atti osceni deturpando i poveri morti; dopo di aver raccolto i nostri compagni caduti e dato loro sepoltura sul posto, ci ritirammo nel fitto della boscaglia a dividere lo scarso bottino. Più tardi giunsero numerosi rinforzi, e noi a tempo avvertiti ci disponemmo a ritirarci, decisi di cambiar sede in cerca di altre avventure.
Ricordo come se fosse ora il terribile scontro avvenuto nei pressi di Rapolla in una nebbiosa giornata del mese di novembre, con uno squadrone di cavalleggeri Saluzzo. Dall'alto di S. Paolo ove la banda era a bivacco fummo avvertiti che la cavalleria da Barile giunta a Rapolla, mirava guadare la Melfia, raggiungere regione Spineventola, e di là muovere all'assalto coll'accerchiamento. Protetti da una nebbia abbastanza fitta, forti del numero e della facile sorpresa, noi decidemmo l'assalto al momento del guado. E l'urto fu terribile e sanguinoso e dopo aspra lotta fummo posti in fuga lasciando nel letto del torrente buon numero di morti e non pochi prigionieri.
Quella sconfitta gridava vendetta all'addolorato mio spirito, e vendetta completa e terribile ottenemmo nel marzo 1863 contro lo stesso squadrone. Venti soldati guidati dal tenente Bianchi partiti da Venosa in servizio di pattuglia erano giunti presso Melfi e lasciata la via principale si erano internati per un sentiero del bosco costeggiante le sponde d'un fosso assai profondo. Le nostre spie ci avevano avvertito della partenza da Venosa di codesto minuscolo plotone e noi dall'alto dei nostri nascondigli ne avevamo seguito quasi a passo a passo le mosse, attendendo il momento opportuno per attaccarlo. Appostati nel fitto della macchia, protetti dalle nodose piante e dai folti roveti, ad un dato punto, quando i soldati tranquillamente camminando per uno si avanzavano lenti ed inermi, ad un segnale convenuto partì una tremenda fucilata.
Colti all'improvviso, a breve distanza caddero oltre metà, e prima che avessero tempo di porsi sulle difese, una seconda salve di fucile risuonò atrocemente per il bosco, facendo cadere al suolo i superstiti. Chi non mori di fucile fu scannato di coltello o di pugnale. Il tenente ancor vivo ed il sergente ebbero, per opera del Teodoro, staccata la testa dal busto e queste vennero inchiodate ad un albero colla scritta ”Vendicati i caduti di Rapolla». Il Tortora ed il Teodoro compirono in quel giorno atti di feroce barbarie verso i soldati caduti, nè io potetti imporre la mia volontà di non far scempio dei cadaveri, inquantochè, leggermente offeso da uno scoppio di canna di fucile, dovetti starmene nell'interno del bosco e medicare la piccola ma dolorosissima ferita.
E poichè ho ricordato gli scontri avuti colla cavalleria non posso passare sotto silenzio la miseranda fine di un altro plotone di cavalleggeri al comando del tenente Borromeo. Eravamo in luglio; in una serata soffocante dopo un sole canicolare, fummo informati dell'avvicinarsi in Melfi di un plotone di cavalleria; venne deciso l'agguato: Tortora, Caruso, Teodoro colle rispettive bande, ebbero l'incarico di preparare il tranello, e, scelto per appiattamento una fitta siepe, che fiancheggiava la strada, ivi appostarono i loro uomini, mentre una ventina di altri a cavallo si erano rinchiusi in un cortile di una casa colonica.
Quando la truppa, inconscia dell'insidia, sfilando di passo per la strada polverosa giunse all'altezza dell'appostamento, i briganti aprirono il fuoco e con replicate scariche rovesciarono al suolo gli arditi cavalieri, mentre gli altri briganti a cavallo, usciti a loro volta dal nascondiglio, finirono col pugnale e colle pistole quelli che erano semplicemente feriti. li tenente rimasto vivo per miracolo dovè la sua salvezza alla velocità del suo superbo cavallo. Inseguito a gran carriera sino sotto le mura di Venosa, egli potè a stento salvarsi dall'accanito inseguimento di Teodoro, e dai cento colpi sparatigli alle spalle.
Duolmi l'essere incapace di scrivere dettagliatamente tutti gli episodi della mia vita brigantesca negli anni 1862, '63 e '64. Ricordo che le nostre bande erano il terrore e la disperazione delle Puglie, della Basilicata e della Campania. Colà cavalleria, fanteria, bersaglieri, guardie mobili ungheresi sguinzagliati contro di noi non riuscirono a domarci. Quante chiamate non ebbi io da Generali, Prefetti, gran signori per indurmi alla resa, ma lo spavento della galera in vita ben più terribile della morte combattendo, ebbe ognora il sopravvento.
Al bosco di Lagopesole ebbero il coraggio di presentarsi a noi disarmati un capitano del 13° fanteria, il delegato di Avigliano ed un sergente per indurci alla resa con promessa di aver salva la vita. Rifiutai ordinando a Ninco-Nanco di accompagnare incolumi fuori del bosco quei valorosi parlamentari. Seppi di poi che Ninco-Nanco, lontano da me, aveva di sua mano trucidato quei tre valorosi ordinando ai suoi di tenermi celato il delitto.
Una sola volta mi venne in mente di presentarmi alla forza per por fine alla mia vita brigantesca, e senza por tempo in mezzo, accompagnato dal Tortora e dal Ninco-Nanco, avanzai inerme su Rionero. Alla persona inviatami dal Comandante la piazza per discutere le condizioni della resa, feci noto le mie pretese chiedendo un salvacondotto e una tregua.
Ma prima ancora che giungesse la risposta avevo cambiato pensiero, ed ero ritornato alle mie armi ed alle mie sicure boscaglie di Monticchio, più animoso di prima di vendere la vita e la libertà a caro prezzo.
A molti potrà apparire strano come la mia banda, così numerosa e formidabile, abbia potuto spadroneggiare dal 1861 al 1864 e che non ostante l'accanito inseguimento della truppa, abbia io potuto attraversare incolume il territorio che separa la Basilicata da Roma.
Alla nostra salvezza contribuirono in massima parte i signori col loro potente ausilio, od almeno col loro silenzio. lo stesso che scrivo, nei vari anni della mia vita di bandito, dormii poche volte al bivacco, e trovai alloggio e ristoro presso persone da tutti ritenute intangibili sotto ogni rapporto. Non fui mai tradito; molte di queste persone non mi tradirono per paura benchè io non li minacciassi, ma altre molte mi diedero ricovero per interesse ed altri ancora per cupidigia. Sono ancora creditore di parecchie migliaia di ducati dati in prestito ad un reverendissimo sacerdote, che si salvò di poi a Napoli quando gliene chiesi la restituzione.
Altro fattore che contribuì moltissimo in nostro favore fu lo spionaggio. I nostri confidenti erano contemporaneamente informatori del governo e stipendiati quindi dallo Stato, di guisachè eravamo quasi sempre informati delle mosse della truppa; e più di una volta, per far acquistare merito e prestigio ai confidenti (contemporaneamente nostri e del governo) mandammo noi stessi informazioni esattissime ai Comandi Zona, sul luogo del nostro bivacco. E quando la truppa giungeva sul luogo per darci la caccia noi, che avevamo avuto tempo di misurare la forza, l'attaccavamo oppure la sfuggivamo a tempo, secondo la convenienza.
Non pochi confidenti facevano parte della guardia nazionale e per mezzo loro si ebbero talvolta informazioni precise sul luogo ove erano depositate le armi, sul punto in cui stazionavano normalmente le pattuglie notturne, di guisachè avanzavamo spesso a colpo sicuro.
La grande conoscenza che noi avevamo del paese, il terreno eminentemente boschivo, teatro delle nostre gesta, l'acquistata abitudine ad una vita da selvaggio, costretti talvolta a mendicare il pane della giornata, obbligati ad errare di serra in serra fra cespugli spinosi, per fossi profondi, una sobrietà a tutta prova, furono fattori potentissimi che contribuirono a renderci forti e temuti.
Per effetto del numero abbastanza grande dei componenti le bande e più ancora la efferatezza di molti di noi, spesso trovammo ostilità in quella plebe, dalla quale noi tutti eravamo usciti; ma in generale essa fu spesso di potente ausilio in tutte le nostre imprese. Cotesto aiuto, quasi sempre spontaneo, era conseguenza dell’odio innato del popolo nostro contro i regi funzionari e contro i Piemontesi, causa non ultima gli effetti della legge Pica, ed il modo sprezzante col quale gli ufficiali usavano trattare le popolazioni, facendo d’ogni erba un fascio.
Prima del 1861, quando nel trono di Napoli regnava Franceschiello, molto dell'elemento che costituiva la mia banda, proveniva dalle angherie sbirresche degli sgherri di Del Carretto, da persone che non avevano voluto piegare la fronte dinanzi a soprusi inauditi, che non vollero vendere l'onore delle loro mogli o delle giovane figlie a signorotti prepotenti, e si videro perciò perseguitati, posti all'indice quali malviventi, vagabondi, persone facili a delinquere.
Dopo il governo di Vittorio Emanuele concorsero invece ad aumentare le nostre file i molti perseguitati dall'elemento cosiddetto controreazionario, che con spradoneggiante spavalderia, sotto l'usbergo della legge, commetteva infamie di certo non inferiori a quelle dei briganti, e con vendette basse e vigliacche denunziava padroni e servi alla polizia per sbarazzarsi di nemici personali. Tra le bizze degli uni e degli altri, chi se ne avvantaggiava eravamo noi che reclutavamo nel nostro seno persone che esercitavano influenza sui non abbienti.
Fra le varie bande che infestarono la Basilicata, posso affermare senza tema di essere smentito, che la mia era la più ordinata e la meglio organizzata. Coppa, Ninco-Nanco, Caruso, Tortora, Serravalle e molti altri che ebbero il comando di bande, furono tutti miei dipendenti, ed ebbero in seguito sempre un sentimento di rispetto per il loro generale.
I miei gregari mi amavano e mi ubbidivano senza bisogno di mezzi coercitivi, qualche severo esempio dovuto dare per disciplinare le orde, mi fu strappato direi quasi a forza dalla necessità dal momento, ma fui sempre con tutti affabile ed amico, anzichè superiore. Ogni mio desiderio era ordine per i miei gregari ed in qualche operazione azzardata, nella quale dovevano concorrere pochi briganti, era per me doloroso il dover sempre respingere la spontanea cooperazione di volenteroso che spontaneamente si offrivano per compagni nell'impresa.
Ebbi chiamate da Generali e da Prefetti ove mi si promise non dico la libertà, perchè mentirei, ma assicurazione della vita, qualora mi fossi presentato; mi mostrai sempre sordo ad ogni invito, convinto che sarei stato rinchiuso in perpetuo, essendo io il capitano generale di tutti i briganti della Basilicata. Molti miei gregari allettati dalla speranza di una lieve condanna, senza rendermi avvertito, si presentarono in Rionero al generale Fontana e si ebbero condanne non gravi, in confronto ai compiuti delitti.
Costoro furono sempre da me detestati e citati di codardia all'ordine dei giorno.

 

CAPITOLO VII – LA FUGA E LA PRIGIONIA