CARMINE DONATELLI CROCCO

COME DIVENNI BRIGANTE

 

CAPITOLO II - IL PRIMO DELITTO

Nell'anno 1845 il caso volle che io salvassi dalle acque dell'Ofanto certo Giovanni Aquilecchia di Atella, persona facoltosa, che mi ricompensò, dell'atto da me compiuto, con 50 scudi.
Quella somma rappresentava un tesoro per me, avvezzo a guadagnare due lire al mese; mi credetti ricco, onde dato un addio alle mie pecore ed alle fertili pianure pugliesi decisi partire per Rionero. Ero assente da casa da oltre 5 anni e mi pullulavano nell'animo tanti e svariati pensieri che il ricordo dei cari genitori ebbe un'attrazione potentissima.
Mio padre aveva esercitato su di me un ascendente morale potentissimo, io non potevo comprendere com'egli uomo gagliardo e forte si fosse così volenterosamente assoggettato alle ingiustizie sociali e avesse accettato sommesso e tranquillo tutti gli insulti più crudeli, che la giustizia degli uomini gli aveva infamemente gettati sul viso.
Francamente parlando dirò che l'idea predominante in me era quella di vincere l'animo di mio padre, di indurlo a scuotere il giogo della servitù, toglierei tutti dalla condizione di umilissimi pastori e tentar fortuna.
Il lavoro non mi faceva paura, mi sentivo sano e vegeto, ero avvezzo ai disagi, per cui avrei faticato volentieri tutto il giorno pur di coltivare col tempo un pezzo di terreno che fosse mio.
Ma purtroppo io non ero nato per zappare il suolo, a me non spettava la gioia dell'uomo onesto; il serpentello della povera pazza doveva da vero rettile schifoso avvelenare la sua e migliaia di esistenze e così purtroppo fu.
Ed ora che nella solitudine del carcere penso al passato e cerco colla mente scoprire come mai io, nato poverissimo, abbia potuto avere idee da signore sin da piccino, e non abbia di poi, col crescere della ragione, saputo vincere questa smisurata tendenza a voler prevalere, a voler essere qualche cosa, sia pure un grande infame, ne attribuisco la causa a ragioni diverse.
Prima e principalissima è stata quella poca istruzione che lo zio Martino con religiosa pazienza seppe impartirmi. E come nel regno dei ciechi lo sguercio è considerato signore, così io mescolato fra tanta plebe rozza e analfabeta, io che sapevo scrivere una lettera, che facevo versi all'innamorata, mi sentii sommamente a loro superiore.
La vita nomade condotta da fanciullo quale guardiano di cavalli, contribuì in non poca guisa a sviluppare in me il germe della grandezza.
Girando per le fiere avevo visitato Bari, Barletta, Andria, Altamura, Foggia, Gravina, Cerignola, quindi avevo appreso che il mondo, che la vita non era racchiusa tra i confini del Vulture e le boscaglie di Monticchio.
Nei contratti di vendita che si stipulavano quotidianamente vedevo le monete d'oro correre di mano in mano, ed i miei padroni aumentare il già pingue patrimonio, senza una fatica al mondo anzi standosene seduti all'ombra nelle ville loro; e pensavo al perchè fosse a loro riservata tanta fortuna, e miseria per noi che eravamo i soli a lavorare.
Aggiungi a tutto ciò un animo ulcerato dalle sventure di famiglia e non sarà difficile renderti ragione come abbia di poi trasmodato in tanta guisa, rendendomi col tempo celebre non per virtù e per bene ma per infamia e per male.
Mio padre fu sordo alle mie proposte; mostrandomi praticamente come egli fosse felice nella sua miseria, cercò calmare i miei istinti di grandezza e mi consigliò a mantenermi modesto e lavoratore.
Lo lasciai al suo podere o meglio al podere del suo padrone e di comune accordo decidemmo che io sarei ritornato in Rionero a cercar lavoro conducendo meco la sorella Rosina.
Quivi vissi felice un po' di tempo lavorando il terreno di un proprietario certo Don Biagio Lo Vaglio.
Alla masseria di questo signore benefico e buono vi erano numerose famiglie di contadini, i quali conoscendo le sventure della mia famiglia mi colmarono di gentilezze e di bontà. Il fattore, Marco Consiglio, mi assegnò la quota di terreno n. 85, un paio di buoi, la stalla n. 5, l'aratro e gli strumenti da lavoro, e mi accolse quale figlio.
In breve colla volontà e coll'assiduo lavoro m'impratichii nell'arte di agricoltura e potei dedicarne da solo a coltivare la mia quota.
Nel primo anno il raccolto fu fecondo ed il bene di Dio compensò il mio sudore. Grano, granone, piselli, ceci, fagiuoli, patate, zucche, pomidoro, erano così abbondanti che io non sapevo dove metterli. Oh terra, madre feconda!... perciò Iddio mandò Adamo lo fece contadino e non Re!...
Fatto il raccolto, pagato il fitto ed il pedaggio dei bovi, trovai che avevo guadagnato due lire al giorno, mentre prima, dall'altro padrone, ricevevo 36 centesimi e dovevo lavorare il triplo e, quello che peggio, ero schiavo notte e giorno.
lo ero felice e contento e più di me la mia sorella Rosina che da piccola massaia mi teneva la casa in ordine perfetto.
Alla sera ci riunivamo in parecchie famiglie in una stalla a sentir le storie che ci raccontavano i vecchi. Ricordo un bel tipo settuagenario, ancora vegeto e robusto, che sapendo scarabocchiare il suo nome, voleva passare assolutamente per scienziato, e guai a contrariarlo. Egli ci parlava dei tempi della repubblica e affermava di aver preso parte alla caduta di Vienna, alla presa di Berlino, alla battaglia di Iena ed alla ritirata di Mosca. Aveva memoria ferrea e ricordava fatti storici avvenuti sotto il governo di Giuseppe Bonaparte e sotto quello di Gioacchino Murat e del brigantaggio al tempo del Cardinale Ruffo. Dopo il racconto di scene brigantesche commesse dai numerosi capibanda, dal Vandarelli di Foggia al Fra Diavolo di Itri, da Talarico a Taccone, quel vecchio, sagace ci ammaestrava dicendo: «Figliuoli miei cercate di essere sempre buoni, con la legge, coi superiori, coi signori; fuggite i cattivi compagni, fate del bene quando potete, così facendo godrete libertà e stima e sarete sempre uomini dabbene, che pur essendo poveri, servendo onestamente, si tira avanti la vita e Iddio provvede a tutto. Vedete figliuoli miei io sono più contento di mangiare ghiande cotte sotto la cenere, che polli e capponi di provenienza furtiva, e vi dico sopra il Vangelo, che val più un carlino stentato col sudore della propria fronte, che centomila ducati rubati».
Ah povero vecchio, poteva mai supporre, che colui che gli era vicino, e che di tanto in tanto gli porgeva da bere, era appunto quello che doveva rinnovellare le scene luttuose e nefande di Fra Diavolo e dei Vandarelli! E non per una sera soltanto io ascoltai quei paterni consigli e sentii quel vecchio ripetere il ritornello: «Fate bene ed avrete bene».
Io da quei racconti appresi il bene ed il male; finchè la partita mia si mantenne nel bene fui buono anch'io, quando poi fu urtato dal male, adoperai il cattivo e di peggio divenni il serpente mostruoso.
Non credere però che Carmine Donatelli Crocco sia veramente un ladro ed un assassino, o come taluni credono un funesto soggetto; niente di tutto ciò. La mia ferocia si riduce alla difesa personale ed essendo di complessione forte, di pronta percezione, di acuto intendimento e di lesta mano, un secondo di tempo che l'avversario mi concedeva, egli era cadavere, con qualunque arma, fosse pure a sassate. Del resto, amante della quiete, della pace, dell'ubbidienza, del rispetto dovuto al superiore, alla legge, pronto a soccorrere il mio simile, io non cercai mai litigi, ma... guai a chi mi stuzzicava.
Sono 25 anni che sono rinchiuso in case di pena, non ho mai questionato con alcuno ed avrò divisi un paio di centinaia di rissanti che senza di me avrebbero sparso sangue.
Ma torniamo alla storia e con essa ai bei anni di mia giovinezza.
Nella masseria dei signor Lo Vaglio lavoravo un mattino dei maggio 1847 ad arare terreno, quando un giovanotto di famiglia nobile, montato sopra un superbo cavallo ed accompagnato da una decina di bracchi, mi passò poco distante.
Fermai l'aratro ed appoggiato il braccio a tergo in atto di riposo fissai quel giovanotto che avanzava verso di me; un mio compagno di lavoro vedendone in quella posizione di ozio, passandomi vicino mi disse: «Tocca giovinotto, che fa notte, non perder tempo a guardare il figlio di quel scellerato Don Vincenzo C..., ti potrebbe capitar sventura, per quanto si dica ch'egli non sia come suo padre brutale malvagio».
«Ed io, caro zio Matteo, risposi, voglio attenderlo per dargli una lezione, che se poi non si accontenta, gliene darò una seconda che sarà soverchia».
Quel giovanotto, come ben ricorderai o lettore, era il figlio dell'assassino di mia madre; immaginati il mio stato d'animo in quel momento.
Quando fu alla mia portata mi diressi a lui e con voce rata esclamai: «Ehi pertichino, chiama a te i cani, altrimenti... »; con questa frase io speravo provocare la sua era, dar luogo ad un litigio, per freddarlo di poi con una fucilata e dire, e uno, ma Iddio non volle.
Il giovine patrizio fermò il cavallo, smontò, chiamò a sé cani, poi venne alla mia volta e mi salutò domandandomi perchè gli avevo detto di chiamare i cani, e se questi arrecavano danno.
«Sicuramente signor Don Ferdinandino, risposi io poichè essendo il grano in fiore, dove mette piede il cane, rompe il tenero stelo e la spiga va perduta, e ciò a tutto danno nostro poichè il padrone di danni non vuol saperne e sull'aia si paga colla misura».
«Vi assicuro che non sapevo ciò, soggiunse il Signorino e vi ringrazio della lezione, di grazia come vi chiamate bel giovanotto?».
«Sono Carmine Donatelli Crocco per servire vostra signoria».
Il signorotto montò a cavallo e partì di galoppo; verso sera venne da me certo Vito De Feo, massaro di pecore alla fattoria La Torre, pregandomi di favorire dal signorino Ferdinandino C... che aveva bisogno di parlarmi.
Non volevo si potesse lontanamente supporre ch'io avessi paura, onde indossai la giacca, mi assicurai che vi fosse il coltello ed in compagnia di compare Vito mi avviai alla Torre.
Fui ricevuto come non credevo, un bicchierino di rosolio, dei biscotti di Francia, un sigaro avana ed invitato a sedere su d'una comodissima poltrona.
Don Ferdinando portò il discorso sulle disgrazie di mia famiglia facendomi diverse domande; per tutta risposta gli presentai un manoscritto nel quale era per filo e per segno narrata la storia delle nostre sventure.
Il Signorino lesse e senza dimostrarsi contrariato mi disse: «Ieri avete cercato adunque di provocarmi?».
«Se vostra signoria ieri adoperava il frustino come soleva fare vostro padre, risposi, vi avrei data una fucilata; dopo avrei preso il vostro cavallo, mi sarei recato da mio padre, e seco lui avrei fatto giustizia di tutti i testimoni che vennero a dire il falso contro mio padre».
Il Signorino parlò a lungo, disse che le colpe dei padri non devono cadere sul capo dei figli; mi assicurò ch'era disposto a soccorrere tutte le vittime di suo padre, a cominciare dalla mia famiglia, e mi offri il posto di fattore in una sua masseria.
Ringraziai, ricusando il posto di fattore ed accontentandomi di avere in affitto tre tumoli di terra, coi quali speravo guadagnare i duecento scudi necessari per esimermi dal servizio militare. Il Signorino voleva a tutti i costi offrirmi in regalo la somma per l'esenzione del servizio, ma rifiutai, pregandolo di offrirmi quanto mi sarebbe mancato al momento della leva.
Così rimanemmo intesi ed io me ne tornai a casa pieno di entusiasmo per Don Ferdinandino e lieto di speranze per me.
Ma il destino mi era contrario.
Il giovane patrizio essendo immischiato nei partiti politici, nella rivoluzione del 15 maggio 1848, in Napoli fu trucidato dagli svizzeri mercenari sotto il palazzo del Duca di Gravina, e mancandomi il suo appoggio e conseguentemente i duecento scudi, dovetti recarmi alle bandiere.
Eccomi soldato di Ferdinando II; partii da Potenza il 19 marzo 1849 arrivai a Napoli il 26, ammesso al I reggimento d’artiglieria.
Il 24 giugno andai a raggiungere la mia compagnia di sede di Palermo.
Il servizio militare mi era simpatico, e non mi pareva pesante; quello che non potevo soffrire era il vedere quasi tutti i giorni bastonare i compagni, che per non essere attenti cadevano in qualche mancanza disciplinare. In quanto a me abituato al duro tratto dei castaldi pugliesi, la disciplina rigida e severa non mi spaventava. Sulle prime piangevo pensando al paese, agli amici, alla fidanzata (che si scordò subito di me sposando un altro, che poi io le tolsi per farlo brigante); ma grado a grado mi abituai e fui ottimo soldato di rara condotta, come risulta dai ruoli matricolari del I reggimento artiglieria, 2a compagnia.
Il 16 dicembre 1851 partii da Palermo ed il 18 stesso mese giunsi a Gaeta mia nuova guarnigione, ove mi trovai meglio essendo meno lontano da' miei cari.
Mia sorella aveva frattanto raggiunto i suoi 18 anni. Era di statura giusta, di complessione snella, aveva la testa coperta da una selva di biondi capelli, mento ovale, occhi neri, naso e bocca giusti, viso tondo, petto largo e gonfio.
La poveretta senza padre e senza madre, lontani, separata dal fratello, soldato, campava lavorando 14 ore al giorno, ed era felice nella sua miseria. Carattere fiero ma indole amorosa non era rimasta indifferente alle proteste d'amore di un suo coetaneo contadino, onde di tanto in tanto canterellava:
.....palombella che zompa e vola nelle braccia di Nenna mia.....
Ma un giorno una donna infame, una mezzana, certa Rosa... con finta ipocrisia e falsa affezione cercò insinuarsi nell'animo vergine della pastorella e quando credette il momento le propose il turpe mercato con un signorotto certo Don Peppino C...
N'ebbe in risposta una rasoiata in viso, equo compenso all'iniquo mestiere. La sfregiata nascose la sua ferita, mia sorella fuggì in casa dei parenti chiamando loro in protezione ed aiuto.
Stavano così le cose quando ricevetti da Rionero lettera colla quale mi si narrava l'accaduto.
Lascio alle persone di cuore il considerare quale fosse lo stato dell'animo mio nel leggere quella lettera, quale tempesta agitò il mio cuore. Un disonesto ci aveva trascinato nella miseria e alla disperazione, un altro della stessa specie, di una casa infame (poichè sei fratelli avevano cadauno la propria ganza, consapevole la madre, anzi questa serviva da mezzana) voleva toglierei l'onore e la reputazione.
Non potendo più tollerare tanta iniquità sociale, mi frullò nelle vene quel sangue inacidito che da fanciullo aveva cominciato a guastarsi. Una voce mi gridò: «Ah non ti ricordi che da piccolo era qualche cosa sulla terra, è ormai tempo di metterti all'opera e di finire una volta di essere vile».
Avevo da tempo in sospeso una quistione di onore: mi liberai di quel tale che da tanti giorni mi era d'impaccio, poscia strisciando al suolo come un serpente, per Mola, Caserta, Avellino, giunsi alla casa di mia sorella in Rionero.
A notte fatta bussai alla porta.
«Chi è» domandò una timida vocina.
«Aprimi Nezza mia, sono io» risposi commosso.
«Tu qui a quest'ora Carminuccio! Che facesti, fuggi, fuggi subito per carità; la notizia del tuo delitto è giunta fra noi, ieri Don Luigi me ne fece parola; hai ucciso un tuo compagno è vero?».
In quel momento ebbi paura, abbracciai e baciai la mia diletta sorella, la consigliai a mantenersi onesta e poscia uscii sulla via.
Don Peppino il bellimbusto che aveva mercanteggiato l'onore di mia sorella, faceva vita scioperata al Circolo, ove ogni sera si giocava impunemente all'azzardo.
Rincattucciato in un angolo oscuro presso la porta di casa sua, attesi tranquillo la vittima; un buon colpo di pugnale punì l'audacia di quel libertino.
Compiuta la vendetta mi diedi alla campagna ove in breve ebbi a compagni di mestiere altri tre individui, essi pure ricercati dalla giustizia.
Nascosti nel più fitto delle boscaglie, noi si aggrediva chi ci capitava limitando le nostre imprese a svaligiare i viandanti, rubar loro coi denari i cavalli.
Capitato nelle mani degli sgherri di Del Carretto fui condannato a grave pena e mandato al bagno penale.

 

Capitolo III - Brigante Politico