CARMINE DONATELLI CROCCO

COME DIVENNI BRIGANTE

 


CAPITOLO I - L’INFANZIA


Il giorno 27 marzo dei 1889 dal bagno di S. Stefano, ove sconto la mia pena, comincio a scrivere i miei ricordi; da questo mio scritto non aspettare cose che l'anima dell'uomo si rallegri, ma bensì dovrà rattristarsi ed inorridire.
Nel Circondario di Melfi, Provincia di Basilicata, è posto il mio paese detto Rionero in Vulture, desso è fabbricato sul pendio di una collina a levante della montagna detta Monticchio, ed il suo tenimento è coperto di vigne, oliveti, ortaglie, castagneti, campi, boschi e pascoli di meravigliosa vegetazione. Secondo alcuno la sua popolazione è di 12.000 abitanti fra i quali trovasi il vero tipo dei Lucani, di cui fa menzione Telemaco. A mezzogiorno di questo bel paese, distaccato a pochi metri dal corpo del paese stesso, si trovano una ventina di case ad un sol piano collocate al pendio di una ripa che si eleva all'altezza varia tra i 25 e 50 metri. Ognuna di dette casarelle era abitata da una famigliola di poveri pastori e coltivatori di campagna, I quali colla fatica tenevano lontano la miseria e la fame. Non mancava però fra quella gente il calzolaio, spia segreta della polizia borbonica, lo scalpellino, qualche decurione, la comare pettegola il sarto ed il maestro di scuola per chi poteva pagarlo.
In fra tutte le sopradette famiglie su per giù vi erano un 200 abitanti; aggiungi ai cristiani un trecento animali fra pecore, capre, buoi, porci e somari, che fanno parte comune coi poveri, ed avrai la cifra di cinquecento esseri animati, tutti abitatori di quei affumicati tuguri.
Eppure colà si trovavano vecchi gloriosi mutilati e veterani di Napoleone, crivellati di ferite prese in Spagna, Prussia, in Austria, o contro i Cosacchi del Don; colà si trovavano uomini che avevano sostenuto le turpitudini Borboniche, Repubblicane, Murattiane, Bonapartiste, e che so io quanti altri malanni. Colà si trovavano vecchie onorate, che avevano mantenuto illibato il proprio onore dalle sozzure francesi, giacobine e spagnole, nei torbidi tempi in cui l'uomo fidava nelle sue forze la propria difesa, poichè i governi, mentre attendevano a macellarsi tra loro, fucilavano uomini inermi per bisogno di sangue, si incarceravano innocenti per bisogno di denari, per sete di vendetta. Quei vecchi nelle lunghe serate d'inverno si raccontavano le meravigliose storie della burrascosa loro vita, le battaglie vinte, gli atti di valore compiuti, il sangue che scorreva a torrenti pei campi di battaglia seminati di morti e feriti, e ciò temprava gli animi nostri ad istinti bellicosi e guerreschi.
In una di quelle case di cui ora vi ho parlato, la prima domenica di giugno dell'anno 1830 nacqui io da Francesco Crocco Donatelli e da Maria Gerarda di Santo Mauro.
Mia madre fu sposa nell'anno 1824 e da questa data fino al 1836 in cui posso dar principio ai miei ricordi, mia madre aveva dato alla luce cinque figli cioè Donato, Carmine, che sono io, Rosina, Antonio, e Marco; il sesto era per venire al mondo, quando Iddio invidioso della nostra felicità, incominciò a flagellarci. Ora voglio raccontare quale era la felicità d'una famiglia povera.
Mio padre era pastore e contadino; quando prese moglie si divise da suo padre, comprò poche pecore ed alcune capre, e, tolto in affitto un pezzo di terra da una famiglia patrizia, cominciò a seminare grano, legumi, formentone e qualche poco di canapa. Col suo lavoro quotidiano ricavava tanto da pagare il fitto al padrone e provvedere al vitto della famiglia, mentre colle capre e colle pecore guadagnava altra moneta per far fronte alle spese di casa. Mia madre aveva ereditato un tumulo di terra, piantata a vigna, la quale era la delizia di noi creature; possedeva pure due casupole ed esercitava il mestiere di scardar lana, con cui lucrava il pane per sè e pei figli.
Sia mio padre che mia madre, che Iddio li abbia in pace, non ci lasciavano mancare nulla. Bello era al mattino quando mio padre apriva l'ovile e le capre uscivano all'aperto, saltellando per nutriti pascoli, mentre noi bambini scorazzando uniti, andavamo a gara in cerca di fiori per portare alla mamma.
E mia madre quanta bontà nei suoi sguardi pieni di affetto, quanto amore nelle sue cure, quanta assidua volontà di lavoro! Si alzava all'alba, preparava la bisaccia del marito, rassettava la casa, curava i figli e poscia con faticosa lena si dava al lavoro, sicura di guadagnare i suoi 40 centesimi prima del tramonto.
Quanta pazienza deve avere una madre nell'allevare i suoi figli! Il bimbo piange, strilla a più non posso e la mamma fa tutti i tentativi per tranquillizzarlo e spesso non vi riesce; gli dà la poppa, no; gli dà del pane, lo butta; gli dà il balocco, lo rompe; lo pone a sedere per terra, si rotola nel fango; lo corica nella culla, si butta giù, e la mamma pazienza, lo bacia, lo vince coll'amore. Eppure ho inteso da certi uomini dire:
«Eh sono femmine e basta!» quale disprezzo massimo per le donne. Taci fellone: la femmina è la madre dell'uomo, la femmina è la moglie dell'uomo, senza di essa non vi è vita. La femmina è la figlia dell'uomo senza di essa non vi è padre contento; e finalmente la femmina è sorella dell'uomo e senza di essa non vi è fratello contento, né famiglia contenta.
Pensa a quanto scrisse Guerrazzi: «rispettare la donna poichè sua madre fu tale» e se questo rispetto non senti profondamente in te, impugna l'aratro e zappa la terra, tu non meriti sorte migliore.
Io sentivo per mia madre un'affezione così potente e così forte, che nei momenti di maggior orgasmo la sua memoria era sprone all'ardire ed all'audacia ed essa mi appariva col suo sguardo fiero e mi fissava vivamente in viso, come per dirmi: «colpisci, vendicami, altri non ebbero pietà di me, di tuo padre, di tua sorella!».
Ed ora dopo tanti anni vi ripeto che quel figlio che ha a sorte di nascere da una virtuosa madre, dessa avendo ricevuto il minimo oltraggio da un uomo prepotente, se non prende vendetta, egli è un codardo, un uomo dappoco. Dunque io che nascendo, ho creduto che sulla terra ero qualche cosa, per un oltraggio fatto alla mia povera madre, mi sono accinto a far scorrere torrenti di sangue, e vi sono riuscito a meraviglia!...
Perdona lo sfogo di un animo addolorato, mio caro lettore, e sii meco cortese, favorisci con me e andiamo a casa mia. Quivi non sperar di trovare sofà, comò, tavolini, poltrone ed altri oggetti, non dico di lusso ma di comodo. Sono due casupole annerite dal tempo e più ancora dal fumo; una serve da fienile e da stalla per le bestie, nell’altra dormiamo noi. Vedi quel misero letto sostenuto a assicelle fradicie e cavalletti arrugginiti? Là dormono mio padre e mia madre; nell'altro lettuccio vicino dormiamo noi tre fratellini, tutti in fascio come stoccafissi. Vedi nel grosso canestro?
Là, dorme la sorella piccina; e nella culla, sospesa sul letto e fabbricata con pochi vimini e tolta paglia, dorme l'ultimo nato, Marco di pochi mesi. Eccoti mia madre che si strugge a scardar lana, osserva come è tutta unta e bisunta di olio.
Guarda quel cassone affumicato, contiene segala, formentone, fave, piselli e un poco di grano con cui fare il pane bianco quando Iddio ci castiga colle malattie. È il raccolto fatto da mio padre, Dio sà quanto sudore versò per pochi legumi! Alza il tuo sguardo al soffitto, vedi quei travi come sono anneriti dal fumo ed i muri carichi di fuliggine? Senti il tanfo delle capre, delle pecore, dei conigli, dei polli? Che ne dici? Sul davanzale d'una finta finestra stanno gli utensili di cucina, pignatte, tegami e piatti di creta, cucchiai di legno, una pentola di rame, ecco tutto. Approfitto della tua bontà e t'invito a sedere su queste scranne di legno, fatti a colpi di scure da mio padre, così avrò il piacere di presentarti mio zio Martino, il mio maestro di scuola. Egli è un vecchio sergente maggiore d'artiglieria ed all'assedio di Saragozza in Spagna perdè la gamba sinistra portata via da una palla di cannone; egli è nato qui. Vi è un altro vecchio che ebbe il braccio mozzato da un ulano ed ora quel povero uomo vive di elemosina, perchè il governo borbonico non ha riconosciuta la miserabile pensione avuta da Giocchino Murat.
Poco oltre vi è un altro vecchio cieco; perdè la vista alla Beresina, ed ora vive cantando verbum caro. Ma di grazia tu sei qui venuto per saper tutt'altro e non per sentir parlare di uno zoppo, d'un monco e di un cieco. Ma io voglio con ciò conchiudere che i Governi, generalmente parlando, non guardano mai dove nascono i figli della miseria, né come essi fanno a vivere, né si occupano in un modo qualunque onde alleviare in qualche maniere la miseria e toglierli dall’ignoranza. Invece li cercano quando son fatti uomini capaci di vivere da sé e porgere qualche sollievo ai vecchi genitori; allora ecco il signor governatore, senza dimenticarne uno solo, se li prende come sua proprietà e ne fa quello che gli pare e piace.
Il pretesto è bello, la Patria, la Legge, la prima è una puttana, la seconda peggio ancora.
E Patria e Legge hanno diritti e non doveri e vogliono il sangue dei figli della miseria. Ma vi è forse una legge eguale per tutti? Non dirmi ciò, non parlare di questo gigante mostruoso, poiché conosco che la legge leale non è mai esistita, nè esisterà fin tanto che Iddio non ci sterminerà tutti. L'innocente mio padre non trovò nè la legge nè la giustizia; la trovò invece Don Vincenzo C..... assassino di mia madre. Riguardo a me non detesto nè la legge nè il governo, anzi sono loro debitore della vita, ma ripeto quello che Mastrogianni e Victor Hugo scrissero: «Lasciatelo vivere nella miseria e nell'infamia!!!».
Ed eccomi alle cause per le quali scaturì la scintilla che doveva dal 1860 al '64 esser causa di tanto sangue nelle Puglie ed in Basilicata.
Siamo al 1836, un bel mattino del mese di aprile, Donato, mio fratello maggiore ed io eravamo tornati dalla scuola dello zio Martino. Pochi minuti dopo entrati in casa Donato fu mandato a raccoglier l'erba per i conigli, io a comprar del sale per la cucina.
Ratti come l'ape corremmo uno a levante, l'altro a ponente ed un quarto d'ora dopo eravamo di ritorno; avendo fatto ognuno il proprio dovere per bene, non ci furono busse, poiché al piccolo sbaglio correvano schiaffi e scappellotti. Per me le busse della mamma erano tanto saporite che qualche volta per averne sbagliavo appositamente.
Venne l'ora del pranzo e seduti attorno ad un tavolo con gran scodellone di minestra fumante ci ponemmo a mangiare, mentre la mamma dava il latte al suo figlioletto. Questo gruppo, che nella miseria era pur felice, fece invidia a Satana, che volle guastarlo e per sempre; in un altro cantuccio della stanzetta eravi un altro gruppo felice di bestioline, conigli e galline che mangiavano l'erba portata da Donato, e il Diavolo, forse geloso anche delle bestie, volle turbare quella felicità; anzi si servì di quelle bestie per portare la sventura in casa nostra.
Inaspettatamente un magnifico cane levriero entrò con un salto nella nostra stanza ed afferrato un coniglio se ne fuggì fuori. A quella vista noi piccini cominciammo a strillare ed uscimmo fuori per togliere la preda a quella bestia, che veniva a turbare la nostra gioia, ma pur troppo il coniglio non fu lasciato che morto.
Donato, che era corso ad armarsi di un randello, assestò un formidabile colpo sulla testa del cane, ed il magnifico levriero cadde morto sul colpo.
Disgrazia volle che questo cane appartenesse ad un ricco signore, certo Vincenzo C... il quale non vedendo presso di sè la sua bestia tornò sui suoi passi e trovatala morta sul limitare della casa nostra, scagliò all'indirizzo di mia madre un milione di vituperi, e col frustino cominciò a picchiare noi di santa ragine. Mia madre cercava scusa, perdono, invocava pietà, ma era tutto fiato sprecato, che l'altro, il signorotto, volendo assolutamente sapere chi aveva ucciso il cane, continuava a tempestar di pugni il povero Donato, tenendolo fermo per un braccio. Allora mia madre vedendo flagellare suo figlio, corse in sua difesa; posò il piccino, che aveva in braccio, per terra e si scagliò furibonda verso quell'aguzzino, ma lo scellerato imbestialito le assestò un vigoroso calcio nel ventre, che la fece cadere semiviva per terra.
L'uomo brutale, dopo che ha commesso il delitto, dopo di aver dato sfogo all'infame sua rabbia, piange come il più vile degli esseri. Così fu per Don Vincenzo.
Dopo aver quasi uccisa una donna incinta di 5 mesi, si chiuse nella sua camera, e incominciò a piangere. Egli piangeva non per paura della legge, per timore della giustizia, di una condanna, che a noi poveri sarebbe toccata di certo; egli ben sapeva che la giustizia abita i milioni e milioni di metri lontana dalle case dei ricchi e dei potenti, ma piangeva per l'onta e per il rimorso.
Corsero i parenti spaventati, venne il medico, ma mia madre non rinveniva; come Dio volle aprì gli occhi. Ma sarebbe stato meglio non li avesse aperti mai!
Dall'aprile del 1836 al maggio 1839 la povera donna fu costretta a guardare il letto. Chi può dire quante lacrime spargemmo noi cinque creature, il più grande ottenne, il più piccolo di due anni! Chi pensava più a noi? Chi ci puliva, pettinava, rassettava i panni? Chi ci accarezzava? Oh quante volte ho sospirato gli amorosi scappellotti della mamma!
Mio padre non poteva lasciare il lavoro, che saremmo morti di fame. Una zia ladra e ghiottona ebbe l'incarico della casa; essa rubava tutto ciò che le capitava sottomano, divorava quello che trovava di buono, lasciando per noi la roba fradicia e puzzolente. Addio scuole, addio zio Martino, parenti, compagni, amici, addio tutti!
Disperazione e miseria sono con noi. La morte ed il carcere è serbata ai miseri!
Eppure abbiamo un padrone in cielo, Iddio, un signore in terra, il Re: in quei tempi avevamo Francesco II per Re, Maria Cristina per Regina; i santa ed il Re buono dei Napoletani; ma essi pensavano alle feste ed alla gloria, mentre, noi morivamo di fame.
Dopo un faticoso aborto mia madre parve migliorare, si fu allora che il padre mio partì per Venosa, alla dipendenza dei signori Santangelo per tosare le pecore e mietere campi di grano.
Don Vincenzo C... l'assassino della mia madre, chiuso nel suo palazzo aveva frattanto pensato al pericolo di una vendetta e, prudentemente, era riuscito ad ottenere che mio padre venisse cassato dal ruolo delle guardie urbane, in conseguenza di che gli fu tolto il fucile.
Ma Iddio non paga il sabato; un bel mattino Don Vincenzo, tutto solo si recò in campagna caracollando un superbo morello. Era armato come un cavaliere antico; pistole all'arcione, fucile a bandoliera, pugnale. Ma con tutto ciò prima di arrivare al punto detto La Torre, a tre miglia circa da Rionero, fu accolto da una fucilata, che lo fece ruzzolare insanguinato a terra. Un altro uomo vegliava sopra di lui ed informato precisamente di quella gita da una spia di casa, misurando luogo, tempo, ebbe agio di dar sfogo al suo odio, quasi certo dell'impunità, poichè egli ben sapeva che la colpa del mancato assassinio non sarebbe caduta su lui, ma su un altro che egli infamemente, a mezzo di vigliacche e false testimonianze avrebbe indicato alla giustizia degli uomini.
Disgraziatamente la mano del vile tremava, forse non per l'assassinio che egli si accingeva a compiere, ma per la falsa denunzia colla quale preparava la condanna d'un innocente; e fu così che la palla sfiorò la fronte di Don Vincenzo C..., portandogli via una ciocca di capelli.
Il tentato assassinio di Don Vincenzo doveva essere punito anche a rischio di far vittime innocenti; bisognava assicurare i rei alla giustizia, od almeno fare qualche arresto, anzi molti arresti, per far vedere che gli sgherri del generale Del Carretto, non se ne stavano colle mani nella cintola. Chi credete che sia stata la prima persona arrestata?
Mio padre Si, si proprio mio padre, il quale nell'ora del misfatto si trovava a Venosa, in casa di Don Felice Santangelo, a nove miglia da Rionero.
Non valsero le dichiarazioni dei suoi padroni di Venosa, nè le testimonianze di ventotto persone di specchiata probità che lavoravano assieme a mio padre; la causa a delinquere era così evidente, così naturale in lui, che niuna testimonianza poteva distruggere la convinzione ch'egli fosse l'assassino materiale e così Francesco Donatelli posto in nudo carcere, venne sottoposto a procedimento penale.
Con mio padre vennero pure arrestati altri cinque poveri diavoli, carichi di numerosa famiglia contro i quali la polizia aveva trovato una lontana ragione a delinquere contro Don Vincenzo. E con queste causali ne avrebbero dovuti arrestare parecchi altri, poichè la prepotenza eccessiva del signorotto era tale, che egli aveva questionato con tutti i contadini del luogo, ora per ragioni di passaggio, ora per derivazione di acque, ora pel pagamento degli affitti, per la divisione del raccolto ecc.
E pensare che quei severi giudici fantasticando sulle cause del delitto non ricordavano il famoso detto «Cherchez la femme!». Sicuro, proprio la donna, una druda di Don Vincenzo era stata la mandante. E quante lacrime per quella lurida femminaccia.
Chi può considerare il dolore di un uomo innocente osto in carcere, con pericolo di cadere in mano del boia. Il reo non ha dolore poichè la sua coscienza si cheta e per lo più diciamo: ho mancato e soffro un castigo che mi sono meritato; ma l'innocente non ha requie, l'innocente on sa darsi pace della libertà perduta, dell'infamia che copre il suo nome, e piange, maledice, impreca... ma tutto invano.
La prigionia di mio padre ebbe il contraccolpo nella malandata salute di mia madre. Quando la povera donna seppe dell'arresto del marito restò pietrificata, non volle più prender cibo ed in breve smarrì la ragione. Una volta piangeva, poco dopo rideva, ora si buttava giù dal letto, ora tentava uscir sulla strada in camicia, distruggeva tutto ciò che le capitava nelle mani, e guai a noi se le andavamo vicini, minacciava strozzarci. L'unica persona che potesse avvicinarla e che esercitava su di lei un ascendente era suo fratello, il quale però aveva una nidiata di figli e più che a mia madre doveva attendere a zappare la terra per dar da mangiare alla famiglia.
Mio padre dal carcere di Potenza scriveva lettere strazianti, raccomandava ai parenti, agli amici la moglie, i figli, ma intanto il piccolo patrimonio nostro andava liquidandosi e la più squallida miseria in breve battè alla porta di casa nostra.
Lo zio, il fratello di mia madre, riunì a consiglio tutti i parenti, e fu deciso che la sorella Rosina se ne andrebbe con la zia materna. Antonio andò in casa di uno zio paterno e morì poco dopo bruciato vivo; Marco, il più piccolo, capitò sotto le unghie di quella zia ladra che durante la malattia della povera mamma, si era rubato ogni cosa.
Donato andò a pastorare le pecore presso un signore, ed io seguii la sorte del fratello presso altro signore in Puglia.
Lontano dal mio paese, da mia madre pazza, da mio padre carcerato, io crebbi conducendo al pascolo armenti, crebbi col veleno nel cuore, colla rabbia nell'animo, col vivo desiderio di offendere.
Un giorno, dopo molto tempo, mi si volle a Rionero per tentare un esperimento presso mia madre nella speranza di renderle la perduta ragione. Appena giunto in casa e vista mia madre ridotta uno scheletro, feci atto di correrle incontro per abbracciarla, ma essa mi respinse inorridita ed esclamò: «toglietemi quel serpente dinanzi agli occhi».
Oh misericordioso Iddio, come sapeva mia madre che io era il serpente velenoso, che doveva mordere i miei simili, che doveva avvelenare tante famiglie; che doveva perdere la figura di uomo e prendere quella di rettile schifoso! Se avessi ponderata quella profezia, se avessi meditato solo su quel rifiuto di mia madre, forse non mi avrei lordate le mani di sangue. Ma che dico, no; furono le sventure di mia madre che mi spinsero al delitto, che mi resero inumano, talvolta feroce; e quando davo la morte a chi invocava pietà, erano le pene che aveva sofferto mia madre, che mi spingevano ad essere crudele.
Ma ohimè che serve ora a pensare al passato, dovevo essere così e così è stato!
Non ero ancora ritornato in Puglia, e nonostante le ripulse materne a mio riguardo, il dottore sperava riuscire in qualche cosa utilizzando la mia presenza presso la povera pazza, quando un giorno sentii la campana della parrocchia con lugubri rintocchi chiamare a raccolta i fratelli della congregazione onde riunirli per fare il funerale di un loro fratello. Era morto Francesco A..., detto lo zio Cecco.
«Povero morto che peccato! E che volete, dopo tutto era vecchio, Dio l'abbia in pace, si è confessato, comunicato, è morto da santo: dimane avrà la messa cantata ed il cataletto, illuminazione, ufficio doppio, il sicuro concorso di tutti i fratelli della congregazione del SS. Sacramento, pace all'anima sua.....» questi erano i discorsi del popolino.
Di fatto la chiesa era stata parata a lutto, l'altare coperto di ceri, la bara di drappo di seta ed oro, e tutti erano accorsi per prender parte ai funerali dello zio Cecco, venerabile uomo dabbene. Ed era veramente un buon uomo, il povero morto; dove vi erano disgrazie egli era primo a soccorrere, faceva elemosine, rimproverava chi faceva male; geloso dell'onore degli altri, come lo era del suo, consigliava a far bene. La sua fisionomia, dopo il trascorso di tanti anni mi è presente e la ricordo benissimo. Era piuttosto alto, fronte spaziosa, occhi neri e grossi, petto largo, braccia e coscie erculee, con una barba bianca lunga ed ispida che gli dava un aspetto selvaggio.
La chiesa era gremita di gente, le donne singhiozzavano picchiandosi il petto, gli uomini erano muti e tristi, solo Don Leonardo Cecero, priore della parrocchia, aveva un aspetto turbato.
Incominciata la messa, intercalata dalla musica funebre, dopo l'elevazione, Don Leonardo, fatto fronte al popolo fe' cenno di voler parlare. Ognuno credeva che il degno parroco magnificasse le tante virtù dello zio Cecero, per cui in un attimo si fece un sepolcrale silenzio. Don Leonardo pressappoco così disse:
«Signori, popolo, uomini e donne voi tutti conoscete Francesco A... Egli prima di morire ha lasciato cinquemila lire per ingrandire la chiesa e mille lire pei poveri bisognosi della parrocchia inoltre mi consegnò questo incartamento pregandomi di leggerlo alla vostra presenza.
«Non tutti voi potete capire l'importanza di questo scritto nel quale vi sono citazioni abbondanti di latino e di greco, io vi dirò perciò la parte più importante.
«Ai tempi, della Repubblica Partenopea, Francesco uccideva cinque persone della distrutta casa Mandorano, al tempo di Giuseppe Bonaparte, Re delle Due Sicilie, uccise un capitano francese per gelosia di male donne. Nel 1809 scannò il commissario straordinario di Re Gioacchino Murat in una alla moglie di costui. Uccise il guardaboschi Michele Spiarule, e poco tempo fa, tentò alla vita di D. Vincenzo C...
«Quest'ultimo mancato omicidio lo zio Cecco lo perpetrò per vendicare l'onore della trovatella Margherita, cresciuta da lui e da D. Vincenzo sedotta, e costretta a finire in un postribolo».
Don Leonardo invocò la benedizione del cielo sulla salma del trapassato, chiese per l'anima di questi una prece dai fedeli, domandò per lui perdono ai figli, ai nipoti di coloro che furono in vece sua fucilati e promise che avrebbe tosto fatti noti tutti i fatti al Re Ferdinando II, per ottenere la scarcerazione degli innocenti incolpati dell'assassinio di D. Vincenzo C...
Dunque mio padre era innocente, e la sua innocenza era palesemente proclamata a voce alta e notoria a tutti. Zio Cecco non aveva voluto portare nel sepolcro il segreto de' suoi delitti.
Egli avrebbe potuto lasciare di sè un buon ricordo, poichè niuno lo sapeva colpevole, preferì liberarsi l'anima dal rimorso che è sentito oltre tomba; e a parer mio fece bene, inquantochè rimediò in parte minima, alle gravi sue colpe. Conosco molti che la pensano, o meglio che l'hanno pensata diversamente, e che vivi godettero pane e gloria, e morti ebbero l'onore dei ricordo duraturo mentre erano colpevoli e tristi.
Conosco persone che dopo la caduta del potere borbonico si misero a capo della reazione, ebbero nelle loro mani migliaia e migliaia di scudi, segretamente iniziarono con me, pratiche perchè colla mia banda sollevassi le popolazioni, e poscia fingendosi liberali, tradirono Francesco II come prima avevano tradito Vittorio Emanuele. Ed ioper non svergognare costoro, e far danno ai figli od ai nipoti di codeste anime dannate, mi tocca di morire senza confessione; e dire che potrei, con una parola, far arrossire di vergogna parenti intimi di gente a me ben nota!!... Ma non si allarmino I compromessi e i loro congiunti, io non parlerò; i loro nomi moriranno con me.
Il parroco D. Leonardo Cecero da vero ministro di Dio, mantenne la sua promessa, fu a Napoli, parlò con Ferdinando II e mio padre venne tosto scarcerato.
Ma la sua libertà fu condizionata. Dopo 31 mesi di carcere, reo solo d'essere parente d'una vittima di un signorotto, gli capitò quale contentino la sorveglianza della polizia.
E mio padre chinò rassegnato la fronte e non volle ribellarsi.
Oh moglie! oh figli! voi siete quelli che possedete la virtù di tener l'uomo avvinto alla catena.

Non così fu di me! Io crescevo coll'odio nel cuore; in me si sviluppava con l'energia fisica, un desiderio vivissimo di vendicare tutte le offese ricevute da mia madre e da mio padre.
A 15 anni mi sentivo uomo fatto; non avevo paura di nessuno e sentivo in me il bisogno di prevalermi sui miei simili, di distinguermi dall'ordinario, fosse pure con pericolo della vita.

 

Capitolo II - Il primo delitto